RICCARDO ACHILLI
Si è tenuta proprio ieri la presentazione del Rapporto Rifiuti Urbani 2018 di Ispra. Emerge uno spaccato interessante del ciclo integrato dei rifiuti nel nostro Paese. In Italia si producono, annualmente, circa 170 milioni di tonnellate di rifiuti. Il 35% di questi rifiuti proviene da attività di costruzione/demolizione, il 25% da rifiuti speciali non pericolosi e il 76% da rifiuti speciali pericolosi, il 18% da rifiuti urbani (circa 30 milioni di tonnellate/anno) e il restante dal trattamento dei rifiuti. Nel segmento dei soli rifiuti urbani, il 24,7% finisce in discarica, collocando il nostro Paese in una posizione intermedia, fra Paesi come la Svezia, la Germania, il Belgio o la Danimarca, che hanno percentuali inferiori all’1,5%, e Paesi come Croazia, Romania, Cipro e Grecia, che smaltiscono ancora fra il 78% e l’82% dei rifiuti in discarica.
Viceversa, la raccolta differenziata, al 2017, è arrivata, a livello nazionale, al 55,5%. Le Regioni meridionali sono però quelle più arretrate: in tali aree, al 2016, si differenzia soltanto il 41,9% del totale dei rifiuti urbani. Certo è molto, se confrontato con l’1,1% del 1996, ma è pochissimo, se paragonato al 59,3% del Centro Nord. Nel Mezzogiorno, si conferisce ancora il 42,4% dei rifiuti urbani in discarica, a fronte del 16,7% del resto del Paese. Solo in Campania, l’azione determinata contro il business camorristico della gestione dei rifiuti gli sforzi condotti dai sindaci dei Comuni più esposti (Napoli e Salerno) hanno consentito di abbattere il conferimento in discarica al 3,9%, dal 48,5% del 2010, raggiungendo il 52,8% di differenziata. Il resto del Sud è invece ancora in situazione emergenziale: la raccolta differenziata di rifiuti urbani scende addirittura al 22% in Sicilia. Il Molise conferisce ancora il 90% dei suoi rifiuti urbani in discarica, la Calabria il 58%.
Ciò che manca ancora, nel Mezzogiorno, è l’impiantistica di trattamento dei rifiuti a valle, che consentirebbe di produrre benefici occupazionali ed economici dal ciclo dei rifiuti, che potrebbero, in parte, essere trasferiti ai cittadini sotto forma di minore prelievo fiscale tramite la TARI. In Italia, secondo Ispra, Nel 2017 sono risultati operativi 644 impianti per il trattamento e lo smaltimento dei rifiuti urbani, di cui più della metà dedicati al trattamento della frazione organica della raccolta differenziata (quasi tutti impianti di compostaggio, con un piccolo numero di impianti per il trattamento aerobico /anaerobico, ed un quinto è costituito da impianti per il trattamento intermedio di tipo meccanico o meccanico/biologico collegati al conferimento del rifiuto indifferenziato in discarica. 51 impianti sono inceneritori o coinceneritori.
Nel Mezzogiorno, gli impianti più diffusi, ovvero quelli di compostaggio, sono appena 64, contro i 178 del Nord Italia. In Basilicata non c’è nemmeno un impianto. Analoga situazione per gli impianti di trattamento aerobico/anaerobico dell’umido (25 impianti al Nord, solo 4, di cui 2 in Campania e 2 in Sicilia e Sardegna, al Sud). Gli inceneritori meridionali sono solo 6, fra i quali la tristemente nota Fenice di Melfi, a fronte dei 26 presenti a Nord.
Solo gli impianti meccanico-biologici, essendo collegati al trattamento dell’indifferenziato, sono più numerosi a Sud, per via del non invidiabile primato meridionale nel conferimento in discarica di rifiuti indifferenziati: 53 impianti a fronte dei 40 nell’Italia settentrionale.
Il gap impiantistico del Mezzogiorno, ed una percentuale di raccolta differenziata ancora in ritardo rispetto al resto del Paese, producono effetti economici negativi di diversa natura. In primis, nel business stesso di riciclaggio e riuso dei materiali: secondo l’indagine Ispra, nei Comuni che utilizzano il sistema di tariffazione più evoluto (c.d. “puntuale”) i ricavi da recupero materiale dai rifiuti ammontano a 7,54 euro/abitante nel Nord, a fronte dei più modesti 1,78 euro/abitante nel Sud (evidentemente per la minore quantità di materiale recuperabile, stante la percentuale ancora alta di conferimento in discarica). La raccolta differenziata consente anche un notevole contenimento dei costi: a Torino, il costo totale di gestione dei rifiuti è pari a 215,65 euro/abitante all’anno, a Milano a 222,42 euro pro capite, a fronte dei più cospicui 238,65 euro per abitante di Napoli, o dei 233,24 di Potenza, o ancora dei 353,92 di Cagliari. Ciò inficia, ovviamente, sul tenore di vita dei cittadini del Sud in termini di maggiore imposizione fiscale.
Il tutto, poi, senza contare i benefici occupazionali derivanti da una impiantistica rilevante, oppure la possibilità di creare filiere produttive che, dal materiale recuperato, realizzino nuovi prodotti manifatturieri.
Del resto, il gap impiantistico alimenta quel pericoloso fenomeno di “turismo dei rifiuti”: stime di Unioncamere parlano di circa 40 milioni di tonnellate di rifiuti che viaggiano da una regione all’altra, in cerca di un impianto di trattamento, e ciò comporta un costo ambientale (circa un milione e mezzo di TIR viaggiano solo per tale traffico), maggiori costi tariffari per i cittadini delle regioni (tipicamente meridionali) che conferiscono il rifiuto da trattare, e una sindrome Nimby per quelli delle regioni riceventi. Senza contare la possibilità di infiltrazioni malavitose su tale traffico.
E’ quindi ovvio che occorra investire in impiantistica nel Mezzogiorno, dove la maggior parte delle società che gestiscono tale attività è pubblica o è un misto di pubblico e privato, e spesso è sottodimensionata. La prevalenza di aziende pubbliche nel settore consentirebbe di sfruttare un vantaggio, ovvero la possibilità di fonderle/ristrutturarle per bacini territoriali ottimali, migliorando l’efficienza gestionale.