BASILICATA BORGHESE VERSUS LUCANIA CONTADINA

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DI GIAMPIERO D’ECCLESIIS

Lo spunto sono i commenti alla bella (ebbene si per me è stata bella) trasmissione di Federico Quaranta, dal titolo “Il Provinciale” che è andata in onda pochi giorni fa con protagonista la Basilicata, anzi, sarebbe più giusto dire la Lucania, come meglio cercherò di spiegare poi.

Il programma parte dallo scenario fiabesco del Parco del Pollino, immerso tra le nebbie e le cortecce segmentate dei pini loricati, e si sviluppa, seguendo il filo del Cunto de li cunti di Giambattista Basile, attraverso un racconto nostalgico, magico, tradizionale, pieno di masciare e di riferimenti ancestrali, dai riti scaramantici di “Quel paese”, al Lupo Comunale di Rapone, alle riminiscenze federiciane di Melfi. Quasi un’arcadia rimasta intonsa nei secoli che, come uno scrigno ritrovato, offre ai viaggiatori di oggi il suo tesoro di perle e gemme preziose.

Federico Quaranta, giustamente, non passa né per Matera né per Potenza (l’ordine è laicamente alfabetico); i due capoluoghi di provincia sono fuori dalla narrazione ancestrale che fa della nostra terra. Chi di noi gira per la nostra regione e la conosce veramente, chi l’ha vista modificarsi in questi anni, amplificando un cambiamento iniziato all’epoca del boom economico, sa che in realtà, quel   cambiamento ha inciso solo la superficie, nonostante tutto, nel profondo, la nostra regione è rimasta in gran parte molto simile a se stessa.

Sono cambiati soprattutto i due principali nuclei metropolitani regionali, ora inseguendo il mito della Città-Regione, ora quello della grande fabbrica, del petrolio, della Capitale europea della Cultura. Solo Potenza e Matera, nella stessa misura e per ragioni diverse, da tempo, hanno smesso di essere lucane e, per svolgere dei compiti amministrativi di livello superiore, hanno dovuto forzarsi a diventare città della Basilicata.

Qual è la differenza?

La Lucania sta al cuore come la Basilicata sta al cervello.

Entrambe queste due città sono state chiamate, in misura diversa, a rappresentare più di sé stesse, Matera la sua provincia e Potenza l’intera regione e poi ancora Matera a essere per un anno la Capitale Europea della cultura. Grandi occasioni peraltro, in entrambi i casi, ampiamente mancate.

Questi ruoli implicano decisioni, programmazioni, progettazioni, scelte strategiche che alimentano filiere di competenze articolate, il Comune di Matera è cosa ben diversa da quello di Pomarico o di Colobraro, anche solo come mole di personale, come entità degli interessi in gioco è una macchina più articolata. La città di Potenza per poter svolgere il suo ruolo di Città-Regione si è lasciata stravolgere, in 50 anni di regionalismo ha cambiato composizione sociale, economica, ha stravolto la sua urbanistica, si è completamente modificata nei suoi equilibri socio-politici.

Le due città capoluogo si sono staccate da tempo dalla originaria configurazione di piccoli centri governati da elite ristrette, hanno dovuto riassestare i propri equilibri al crescere della classe media, gli ascensori sociali hanno lavorato freneticamente, le grandi famiglie degli anni ’50 e ’60 che certamente ancora si muovono dietro le quinte, hanno dovuto condividere la scena con nuovi attori, si è costituito un vero consistente ceto borghese, consolidato e agguerritissimo nel difendere i suoi privilegi.

Nel resto della Basi-Lucania questo non è e, dove è, lo è con minore forza.

Potenza come Matera hanno una lunga storia di borghesie attive, dal risorgimento lucano che è storia interamente borghese, al fascismo, borghesissimo anch’esso, alla Democrazia Cristiana, è stato tutto un lungo travaso di classe dirigente da un epoca all’altra.

Per carità, certo non monolitica, all’interno della borghesia hanno convissuto due contrapposte visioni, liberale e riformista, ma sempre, in entrambi i casi, fortemente finalizzate all’affermazione della propria posizione centrale all’interno della società e tenacemente in lotta per il potere assoluto.

La fortuna del modello consumistico-liberale proposto dal trentennio berlusconista e l’emersione della monumentale ipocrisia di una sinistra borghese e neoliberale nei fatti e nelle politiche, ha determinato il definitivo tramonto di ogni visione riformista nel nostro paese sdoganando i veri, immutabili appetiti di ogni classe borghese che si rispetti: il profitto sopra ogni cosa, la negazione dei diritti di tutti coloro che per ragioni economiche, politiche o sociali sono considerati estranei o nemici, la lotta per il potere senza più la scusa delle ingombranti ideologie.

Come dite? Già vi siete spaventati e mi date del comunista?

Per favore, non cominciamo con le idiozie.

Questa apparente digressione su questioni diverse da quella da cui sono partito in realtà, come spero capirete tra poco, è esattamente funzionale alla lettura dell’analisi di costume che sto cercando di fare a proposito delle discussioni su “Il Provinciale”.

Archiviato ogni senso di colpa sociale rispetto a chi sta peggio, secondo la regola che chi sta peggio, sotto sotto, dopotutto, se lo merita, pian piano è emersa anche alla luce la lunga frustrazione subita da un’intera classe sociale in questi anni.

La povera classe media di provincia, quale che fosse la sua inclinazione ideologica e per motivi diversi, ha dovuto far finta di entusiasmarsi alle epopee contadine, celebrare libri come “Cristo si è fermato ad Eboli” che della borghesia lucana tracciava un ritratto devastante, inghiottire complimenti a un sindachello socialista di paese, autore, dopotutto, di qualche poesiola e un paio di libri peraltro incompiuti; adattarsi ad ascoltare elogi e esaltazioni di un mondo che detestava di cuore rappresentando il ricordo del suo passato.

I contadini puzzano, sono ignoranti, ubriaconi, e malfidati. I paesani sono paesani, sempliciotti, ignoranti, cafoni, arretrati. Come poteva essere possibile che la rappresentazione della nostra terra fosse tutta (o quasi) legata a loro?

Il ventre largo della vecchia balena bianca ha incorporato tutta insieme la vecchia classe dirigente unendola con la nuova, secondo il principio gattopardesco del cambiar tutto per non cambiare nulla riuscendo, al momento del trapasso, ad incorporarla ancora nella nuova versione, appena colorata di rosa, in cui è mutata dal finire degli anni ’90 al 2000 o a portarla transfuga, in salvo, tra le braccia del nascente berlusconismo. Oggi, sia pure dopo un lungo inverno, la mappa del potere è cambiata in maniera ancora più decisa,  e il tramonto, almeno a medio termine, di ogni prospettica riformista, spinge la nuova classe dominante alla controrivoluzione culturale, per dirla nella maniera ipocritamente suadente che si usa tanto oggi, a riequilibrare le visioni storiche dando spazio a una narrazione pluralista che superi le barriere ideologiche imposte in passato.

I briganti eroi contadini? Assassini prezzolati e stupratori!

I contadini? Bruti ignoranti armati dalla propaganda borbonico-clericale!

La Lucania non esiste più, la Basilicata è la terra che hanno costruito i patrioti del risorgimento che erano gli unici ad avere la consapevolezza di ciò che era buono e giusto per tutti, il resto era feccia!

Inutile cercare di spiegare la profondità di analisi che, ad esempio, un Pinto mette nella sua ricostruzione della guerra civile meridionale post-unitaria, la classe media di oggi è fatta di menti semplici, gli basta che si ribalti il paradigma del contadino-brigante eroe e si ribadisca la centralità della sua classe nell’evento storico.

 Carlo Levi? Un intellettuale piemontese spocchioso e razzista (allora non usava ancora radical chic) che ha parlato male della borghesia lucana perchè comunista e ebreo!

Scotellaro? Un poeta bucolico!

Albino Pierro? Brrrrr portava sfiga!

Manlio Rossi Doria? Un comunista e comunque sono passati 60 anni è roba vecchia!

Anche qui a che serve cercare di far capire l’analisi e le motivazioni che sono dietro alle stoccate dialettiche di un Gaetano Cappelli, saldamente incastrate in una visione critica del sistema culturale lucano che in qualche misura ha mummificato la narrazione sulla nostra regione incastrandola nel quadro immobile di donne in nero dolenti e in uomini silenziosi e privi di speranza. Basta prendere l’utile della critica e poter dar sfogo al peso che si è avuto sullo stomaco per anni potendo dire a voce alta che Pasolini era un pederasta e Carlo Levi un polentone ricco ed anche un po’ ebreo.

Avete capito pian pianino dove volevo arrivare?

Esatto.

Stiamo assistendo all’arruffato tentativo della porzione di classe media uscita vincente dallo scontro tra il neo-liberismo consumista e il riformismo all’acqua di rose della ormai defunta sinistra italiana, di riscrivere la identità lucana. Sono tanti, spesso ignoranti e arruffati, fanno il tifo per Matera, fanno il tifo per Potenza (sempre in laico ordine alfabetico) entrambi con la pretesa di spiegare a tutti come l’una o l’altra siano le città faro di questa terra a cui tutti dovrebbero inchinarsi con deferenza, tutti ugualmente determinati a riscrivere l’identità regionale a proprio vantaggio in spregio a tutti gli altri.

Capite bene che a questi consessi l’immagine che “Il Provinciale” mostra della regione non è piaciuta affatto. Il vento che spira in questa direzione è talmente forte da aver certamente influenzato anche l’autore.

Le due interviste ai “venerabili” Gaetano Cappelli e Raffaele Nigro, mi hanno dato la sensazione di essere state inserite per rispondere a due esigenze: la prima, dare soddisfazione alla richiesta pressante di rottura della narrazione tradizionale che certamente è giunta dai “nuovi turchi” e la seconda di schierare, a difesa all’impostazione del programma, una voce altrettanto autorevole.

Intendiamoci, non confondiamo le cose, non fatelo voi e sia chiaro che non lo farò io.

Ho letto con attenzione e con curiosità le tesi che più volte il Gaetano per eccellenza ha espresso su testate nazionali e locali, sia rispetto a Carlo Levi, sia rispetto a Pierpaolo Pasolini, e pur non condividendole, riconosco che le argomentazioni usate non sono state mai banali e che la critica a certi “sacerdozi” della cultura di sinistra, pronti alla scomunica, sia assolutamente condivisibile e motivatissima.

Magari con un filo di malizia potrebbe dirsi allo stimato Gaetano, siamo sicuri che in condizioni politiche differenti da quelle determinatesi negli ultimi anni avresti ritenuto ugualmente improcastinabile sfidare a singolar tenzone due mostri sacri (per di più morti) della cultura di sinistra? Avendo saggiato in più occasioni il suo tasso di irriverenza (una delle sue caratteristiche che preferisco) io credo di si. Del resto una opinione e una visione diversa possono solo arricchire la discussione e al nostro Cappelli non si può far colpa se sulla sua groppa poderosa provino a esibirsi piccole mosche nocchiere in cerca di visibilità.

Personalmente condivido in pieno l’idea che la nostra terra non sia più solo quella delle masciare e dei baroni, e che occorrerebbe raccontarla anche come è adesso, certamente con le storie borghesi, sofisticate, piene di glamour cittadino di Gaetano Cappelli ma anche, perchè no, con altri registri, ivi compreso quello legato alle tradizioni.

La nostra regione è assai di più delle due città capoluogo, ci sono centri, comunità minori, luoghi in cerca di una occasione i cui abitanti pensano – secondo me con ragione – di poterla trovare anche grazie al loro patrimonio tradizionale che, a differenza di quello delle città più grandi, è in gran parte incorrotto e in attesa di essere riscoperto e utilizzato.

Sono grato all’autore della trasmissione che più di tanti di noi ha mostrato di aver capito questa particolarità e di aver costruito un racconto rispettoso di questa possibilità che a mio modo va coltivata cercando di andare al di là degli egoismi e della ottusità di cui spesso si è dato prova negli ultimi anni.

Viviamo un’epoca che si alimenta delle contrapposizioni, che gronda risentimento e sarcasmo, entrambi manifestazioni icastiche di animi mossi da emozioni elementari e di menti prive della necessaria profondità per agire il confronto con rispetto e empatia per chi ha pensieri diversi.

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Sull' Autore

Giampiero D'Ecclesiis (Miles Algo) è un geologo. Forse anche per questo riesce ad amare la profondità dei luoghi e della terra. Poeta e scrittore pubblica i suoi racconti e le sue poesie in anteprima sulla pagina Facebook e sul suo blog. Nel 2008 presenta un libro di sue poesie dal titolo “Fantasmi Riflessi” cui segue, nel 2009, il suo primo lavoro narrativo “Vota Antonio, Viaggio semiserio in una campagna elettorale del 2009” (Arduino Sacco Editore). Nel 2012 per la collana “Scritture in metamorfosi” curata dall’Associazione culturale LucaniArt, pubblica una silloge di poesie dal titolo “Graffi nell’anima”. Con il suo racconto “150° Unità d’Italia – 20 luglio 1915, Isonzo” vince il primo premio della sezione Narrativa adulti del 1° Concorso letterario Nazionale “Premio Carolina D'Araio” e, sempre nella stessa occasione, con la poesia “Salendo al paese” il terzo premio della sezione Poesia adulti. Pubblica “Due avventure di Giovacchino Zaccana viaggiatore” in una raccolta di racconti editi dalla casa editrice Pagine nella collana “Nuovi autori contemporanei”. Nel 2014 pubblica il libro “Ipnotiche oscillazioni ed altre storie” Edizioni Universosud cui segue, nel 2015 sempre con la Casa Editrice UniversoSud, il libro di racconti “Giovacchino Zaccana – Appunti disordinati di viaggio”. Collabora con giornali e con riviste on line pubblicando poesie, brevi racconti e riflessioni di natura sociale e culturale. Ha un rapporto critico con il mondo che lo circonda. E’ curioso, irriverente. Odia ed ama la politica. Preferisce quella di prossimità. E’ capace di animare eventi complessi quando la letteratura, la musica, il teatro e la poesia possono restituire una occasione anche ai luoghi che vive. Così ha fatto rendendosi ‘testimonial’ del bisogno di spazi verdi fruibili nella sua amata Potenza, di luoghi da sottrarre all’amianto, all’incuria e all’abbandono.

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