BIDEN CONTRO SANDERS: COMINCIA IL DUELLO

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Marco Di Geronimo

Le primarie democratiche stanno per cominciare. L’America sceglierà a breve l’avversario di Donald Trump e i candidati in lizza sono molti. Ma dopo mesi di caciara, forse si sta ritornando punto e a capo: al duello tra Joe Biden e Bernie Sanders. Lo stuolo di candidati alternativi sembra aver sparato tutte le cartucce. Ed esser rimasto con pugno di mosche in mano. Il vero disastro, però, è che si è smarrito il momentum attorno al quale costruire una candidatura molto forte e seguita nella società americana. Sempre che non lo si riesca a catalizzare con la campagna serrata dei prossimi mesi.

Antefatto: Corse pazze con mille concorrenti

Il Partito Democratico americano sceglie il proprio candidato Presidente attraverso un sistema di primarie, che ogni Stato decide se tenere aperte o chiuse (o ridurle a caucus: per banalizzare, una specie di riunione dei circoli). Il meccanismo è rodato da anni e nel 2016 incoronò Hillary Clinton alla nomination finale. Quest’anno è stata introdotta una significativa novità: lo svilimento dei c.d. superdelegati, cioè i membri della Convention Nazionale che non sono collegati ad alcun candidato e che possono decidere come vogliono chi votare. Nel 2016 il Partito intero si schierò con Hillary, suscitando l’indignazione di quel pezzo d’elettorato progressista che votò Sanders. Da quest’anno i superdelegati potranno votare solo al secondo scrutinio: se un candidato avrà la maggioranza al primo, i voti saranno fatti e i papaveri del partito dovranno rassegnarsi a seguire il voto popolare.

Il primo ad annunciare la sua candidatura alla nomination è stato Julian Castro, ex Ministro di Obama, che è sceso in pista addirittura il 12 febbraio 2019, con oltre un anno di anticipo. Da quel momento in poi, non sè capito più niente: una flotta di democratici ha messo sul piatto la propria candidatura. In alcune fasi si è raggiunta e superata quota 20 candidati. Tuttora ci sono ben quattordici contendenti per la leadership.

Nonostante fosse chiaro a tutti che i concorrenti principali fossero Joe Biden e Bernie Sanders, in tanti hanno pensato di sfruttare l’occasione per guadagnare visibilità e consensi. Si trattava di una ghiotta opportunità: mai come oggi l’elettorato democratico è in subbuglio, raccolto attorno alla sfida di sconfiggere Donald Trump. E mai come oggi (lo dimostrò quattro anni fa la formidabile campagna di Sanders) l’elettorato democratico è aperto a idee nuove e radicali. Sperando in una inaspettata tendenza a proprio favore, rappresentanti di praticamente tutte le correnti interne del Partito hanno messo in pista il proprio programma.

La DNC (Democratic National Committee, cioè l’organismo di coordinamento del Partito) si è trovata costretta a stabilire requisiti sempre più esigenti per ammettere i candidati ai dibattiti televisivi. Era necessario portare un po’ d’ordine in una campagna che si è resa sempre più disorganizzata e confusionaria, con programmi simili e ridondanti, e nella quale i candidati si sono azzuffati sulle piccole differenze che li distinguevano gli uni dagli altri. Il Partito ha dato limpressione di essere diviso e di non avere una proposta politica coesa e credibile. È scemato anche leffetto novità che caratterizzava le proposte più radicali: con la spiacevole conseguenza di creare anche la sensazione di essere di fronte a un Chi la spara più grossa?

Dopo un anno di corrida, in molti cominciano a ritirarsi. Diversi hanno abbandonato prima della fine dell’estate, consci di non aver sfondato nei sondaggi (Hickenlooper, Gravel, Moulton, e pure il Sindaco di New York Bill de Blasio). Il 1° novembre è arrivato l’abbandono dorato di Beto ORourke, l’Obama bianco che in molti credevano capace di conquistare il Texas ai dem. Ci fosse riuscito, avrebbe portato a casa un risultato strepitoso, capace di assicurare la vittoria nel 2020. Ma la candidatura di ORourke è sempre apparsa debole, incapace di sfondare nell’ala centrista del Partito e di scalzare Joe Biden dalle posizioni di comando. O’Rourke ha patito anche una pesante crisi di consensi grazie all’affermazione di Pete Buttigeg e alla fine si è dovuto ritirare. Adesso arrivano molti altri ritiri. A dicembre ha abbandonato la corsa Kamala Harris, senatrice nera della California e in passato vista come la candidata perfetta per unire moderati e radicali del Partito. Una posizione troppo 50-50 per mietere consensi: pur essendo la più accreditata dei candidati minori, problemi finanziari della campagna l’hanno costretta a cedere. Oltre a lei, si sono ritirati diversi candidati minori (Castro, Bullock, Sestak, Messam).

Il campo inizia a sgombrarsi e in pista restano sostanzialmente quattro candidati principali, attorniati da una decina di rivali di contorno senza grosse chance. A guidare la corsa c’è l’ex Vicepresidente di Obama, Joe Biden, che è il candidato dell’establishment e a causa delle sue posizioni moderate è molto forte nell’elettorato di colore. Negli ultimi giorni ha riconquistato la seconda piazza il senatore Bernie Sanders, outsider delle primarie 2016 e noto per le sue posizioni radicali (si definisce socialista democratico nella terra della Red Scare). Dietro di loro sembrano in difficoltà sia Elizabeth Warren sia Pete Buttigieg. La Warren è una senatrice progressista, in passato considerata dalla Clinton per la vicepresidenza e poi scartata (pare) perché troppo ingombrante. Invece Buttigieg è Sindaco di South Bend, dichiaratamente omosessuale ma centrista, o perlomeno (come dice lui) sostenitore del capitalismo democratico. Dietro di loro incombe lo spettro della candidatura di Michael Bloomberg, miliardario newyorkese che miete consensi a botte di spot televisivi (ma che finora non ha potuto accedere ai dibattiti TV perché si finanzia la campagna da solo e tra i requisiti d’ammissione figura un numero minimo di donatori singoli).

Hanno tutti il fiatone: e rivive il duello

Adesso si entra nel vivo: il 3 febbraio si vota in Iowa e comincerà ufficialmente la lunga corsa che il 13 luglio incoronerà i candidati dem alla Presidenza e alla Vicepresidenza degli Stati Uniti. Dopo l’Iowa andranno al voto altri tre Stati: il New Hampshire (11), il Nevada (22) e il South Caroline (29). Seguirà il super-martedì: quindici Stati terranno le loro primarie il 3 marzo, seguiti da quattro Stati il 10 marzo ed altri quattro il 17 marzo. A quel punto i giochi saranno fatti, anche se altri sei Stati dovranno tenere le loro votazioni tra inizio aprile e inizio giugno.

La tarantella comincia con un quadro confuso sui sondaggi, complicato dalla parcellizzazione Stato per Stato e da rilevazioni contraddittorie sul piano nazionale. YouGov sostiene che Bernie Sanders è in netta ripresa, attestandosi in testa sia in Iowa sia in New Hampshire. Mentre nel primo Stato al voto la lotta è apertissima (sono pari merito al 23% Biden, Buttigieg e Sanders, con la Warren al 16%), in New Hampshire si terrà in pratica un ballottaggio tra Sanders (27%) e Biden (25%). Bernie andò molto bene nei primi due Stati nel 2016 (vincendo in NH) e adesso punta su un buon inizio di campagna per sferrare lattacco finale all’establishment del Partito.

Buttigieg e Warren si trovano in una fase altalenante. Il Sindaco di South Bend ha gravi difficoltà a sfondare nellelettorato giovanile, benché sia il più giovane dei quattro front runners. Come riporta Politico, Buttigieg ha difficoltà a entrare nelle corde di una generazione sempre più radicalizzata a sinistra e che si rifiuta di accontentarsi del progressismo moderato che propone al Paese. Tra le proposte di Buttigieg spicca il Medicare for All who want it (Sanità pubblica per tutti quelli che la vogliano), un programma sanitario molto più moderato di quello di Bernie Sanders e sul quale ha mietuto fior di accuse. E proprio sulla sua versione di Medicare for All (Sanità pubblica per tutti), Elizabeth Warren ha incassato critiche fortissime (tra cui una serie di articoli al vetriolo di Jacobin Magazine). Non è un caso che la Warren adesso ha smesso di parlare di sanità: la senatrice si concentra di più sulle proposte di riforma economica che piacciono ai liberal che guardano a sinistra (senza per questo essere anticapitalisti come i seguaci di Sanders).

Warren e Buttigieg hanno fallito nella missione originaria: impersonare la candidatura alternativa, rispettivamente del centro e della sinistra del partito. Le loro candidature sono riconoscibili rispetto a quelle di Sanders e Buttigieg ma scontano l’una la radicalizzazione attorno al senatore del Vermont, e l’altra una grave difficoltà a penetrare nelle fasce giovani e in quelle più liquide dell’elettorato democratico. Chi vota Biden e Sanders non si sposta sui due comprimari: il senatore del Vermont ha un elettorato fidelizzato che si rifiuta di abbandonarlo (e per questo gli altri candidati hanno rinunciato perfino ad attaccarlo), mentre il Vicepresidente ha ancora la fiducia di tutto l’apparato, che stenta ad abbandonarlo per appoggiare le candidature innovative ma fragili di Buttigieg e Bloomberg.

Dietro di loro guadagna consensi Michael Bloomberg, che nell’ultimo sondaggio pubblicato da The Hill avrebbe capitalizzato un solidissimo 11%. La campagna dell’ex Sindaco di New York si sta concentrando sugli Stati del super-martedì, ignorando i primi quattro Stati (sui quali invece gli altri candidati spendono i loro migliori sforzi). Bloomberg si è candidato per ultimo, molto tardi (il 24 novembre scorso): già questo è un forte handicap. In parole povere, l’obiettivo del miliardario è impersonare il candidato centrista affidabile. Difficile possa ormai insidiare Biden, sia per il tempismo (che gli ha impedito di consolidare la sua candidatura nell’immaginario collettivo), sia per l’appoggio molto forte di cui l’ex VP gode dentro l’establishment. Forse si può ipotizzare che sia Bloomberg ad aver sgonfiato Buttigieg nelle ultime settimane: certo il miliardario ha cominciato a crescere dopo il picco registrato dal Sindaco a inizio dicembre, e ormai del tutto vanificato.

In questo quadro si rafforza un dualismo tra Biden e Sanders che non è detto guidi il resto delle primarie. Potrebbe trattarsi di una fase passeggera: già nel corso di quest’ultimo anno i sondaggi sono cambiati rocambolescamente, arridendo prima Kamala Harris (a inizio luglio addirittura seconda in graduatoria) e poi anche Elizabeth Warren (sopra il 25% a metà ottobre). Le prossime settimane saranno decisive e i quattro shot di Iowa, New Hampshire, Nevada e South Carolina avranno grandi contraccolpi sull’andamento dei consensi. Quello che oggi sembra una tendenza, potrebbe rivelarsi domani un’onda o uno spiffero.

Però bisogna osservare che a ridosso delle elezioni si sgonfiano i candidati minori. Non è per forza un caso che si sia concretizzata questa carta: un effetto-fuga dalle candidature meno forti si registra sempre in prossimità delle votazioni. È il famoso voto utile, che premia chi sembra avere maggiori chances di riuscita e che in questa fase sta avvantaggiando proprio i due predestinati alla sfida finale. Seguendo questa (semplicistica, lo ammettiamo) lettura, si spiegherebbe anche il calo di Buttigieg: ormai è chiaro che non può essere lui l’alternativa centrista a Biden e si spiegherebbe così il forte rialzo nei sondaggi di Bloomberg, accreditato come più affidabile ed “eleggibile”.

Epilogo: Il premio agrodolce della nomination

Non è detto che vincere la nomination democratica sia una grande gioia. Sfidare Donald Trump sarà assai difficile: il Presidente repubblicano sta giocando tutte le sue cartucce per facilitarsi la vittoria elettorale. La Casa Bianca ha portato il Paese sull’orlo di una guerra nel tentativo di blindare il vertice dell’esecutivo (quando si combatte non si discute il commander-in-chief). In più Trump viene da una fase economica favorevole, anche se di sicuro eredità del programma di stimoli obamiani, e pure da un contesto finanziario positivo (benché sia piuttosto tautologico che Wall Street si rallegri di avere un Presidente che regala sconti agli straricchi e agli speculatori).

Tuttavia il Paese resta diviso da una distribuzione sempre più ingiusta e ineguale delle risorse economiche, in cui milioni di persone fanno affidamento sui buoni pasto per andare avanti e le cure mediche rimangono inaccessibili per fasce enormi della popolazione. La povertà relativa continua ad affliggere strati immensi della società americana e si ripercuote sulla popolazione di colore in misura superiore al normale (continuando ad assicurare ai dem sogni tranquilli nei seggi black). Lo scontento è palpabile ma il sistema elettorale è una macchina infernale: nonostante i forti movimenti demografici stiano indebolendo la muraglia rossa (color repubblicano) nel Sud del Paese, strada ancora resta da percorrere prima di mettere al sicuro la Casa Bianca. E l’impeachment, procedura di rimozione che verosimilmente si arenerà al Senato senza aver scosso troppo l’opinione pubblica, rischia d’essere un assist a Trump più che una tegola.

Oltre agli equilibrismi demografici, ai programmi politici da propagandare e alla battaglia vera e propria in campagna elettorale, il candidato democratico avrà anche il difficile compito di tenere unito il Partito. La contrapposizione interna tra moderati e radicali ha prodotto uno spettacolo ben poco apprezzabile e rischia di scavare un solco profondo tra due anime del Partito sempre meno capaci di sopportarsi l’un l’altra. La radicalizzazione del conflitto politico in America è particolarmente virulenta e rischia di minare alle basi la capacità dei dem di penetrare nell’opinione pubblica americana e convincere tutti ad andare a votare.

Per questo sarà importante la scelta vicepresidenziale: non è un caso che sia Biden sia la Warren non hanno escluso di scegliersi a vicenda come team-mate, nel caso vincessero le primarie. Non è da sottovalutare l’idea che scegliere Tim Kaine come proprio running-mate costò diversi voti a Hillary Clinton. La candidata del 2016 sottovalutò decisamente la forza anticlintoniana della campagna di Sanders e non riuscì a tenere uniti i vari pacchetti di voti blu (color democratico). Ne fu una testimonianza il 4% che raccolse la candidata radicale dei Verdi su base nazionale. Oggi comporre un ticket bilanciato è fondamentale: il Presidente moderato dovrà trovarsi un veep progressista e viceversa, oppure l’emorragia di consensi potrebbe consegnare al mondo altri quattro anni di Donald J. Trump alla Casa Bianca.

A chi vuole tenersi permanentemente informato sulle primarie democratiche USA, suggeriamo di seguire un ottimo canale d’informazione: la pagina Facebook Elezioni USA 2020, che in passato seguì già le scorse presidenziali e le elezioni di metà mandato del 2018. Si tratta del canale d’informazione più aggiornato, documentato e completo disponibile in lingua italiana.

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Sull' Autore

Direi di scrivere soltanto questo: "Potentino, classe 1997. Mi sono laureato in giurisprudenza a Pisa".

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