riccardo achilli

La popolazione meridionale esposta rischio di frane è, al 2017, pari a 5,3 abitanti per km2. Un dato che si confronta con i 3,5 abitanti per chilometro quadrato del Centro-Nord. Dove le condizioni urbanistiche ed abitative sono particolarmente degradate per via di sistematici abusi, ad esempio in Campania, tale cifra raggiunge il livello apocalittico di 22 abitanti per km2. Il rischio di alluvione riguarda più o meno la stessa popolazione media per km2: 5,4, testimoniando che i fenomeni del degrado idrogeologico e del cambiamento climatico sono interconnessi.

Parallelamente, sui 25,7 miliardi stimati dalla struttura di missione contro la mitigazione del rischio come fabbisogno per interventi, quasi 8 sono assorbiti da Campania, Sicilia e Sardegna, che sono, per entità dei fabbisogni, la prima, la seconda e la quarta fra le regioni italiane. Va detto che nel 2013 l’allora Ministro dell’Ambiente Clini stimò in 40 miliardi la cifra necessaria per mettere completamente in sicurezza il Paese, ben più dei 25,7 di fabbisogno espressi dalla struttura di missione. A fronte di tale cifra, gli interventi avviati o conclusi sono poco più di 2 miliardi. Il 90% degli interventi previsti è ancora in fase di progettazione, spesso da più di vent’anni. Lungaggini burocratiche, la vera e propria corsa ad ostacoli della normativa sugli appalti, che nessun intervento di riforma ha sanato, difficoltà tecniche di Regioni, Comuni e città Metropolitane nell’individuare le criticità e progettare i relativi interventi, concorrono nel bloccare interventi così vitali per la sopravvivenza di interi territori, con la conseguenza che il mancato investimento in prevenzione genera un costo di riparazione dei danni, dopo che gli eventi si sono verificati, pari a 61,5 miliardi, accumulati fra 1944 e 2012, secondo una stima dell’Anci. Senza contare i costi sociali ed umani: vittime, spopolamento ed abbandono delle aree interne più fragili, danneggiamento di patrimonio artistico non sostituibile. 61,5 miliardi contro i 40 necessari per sistemare tutto il Paese in modo ottimale. Il risparmio è ovvio.

E’ di tutta evidenza che se si coprisse l’intero fabbisogno stimato, si genererebbero migliaia di posti di lavoro e si darebbe una risposta molto forte alla crisi del comparto edilizio, con effetti di crescita che si propagherebbero all’intera economia. Come è noto, il settore delle opere pubbliche è fortemente prociclico: distribuisce lavoro e redditi, attiva una filiera lunga a monte ed a valle, consente di proteggere dal rischio siti produttivi ed infrastrutture essenziali per lo sviluppo economico.

In questo senso, certamente gli sforzi di semplificazione burocratica e procedurale per attivare gli investimenti sono molto importanti, così come è fondamentale rafforzare le capacità di monitoraggio e di progettazione di Regioni ed enti locali, ma è la cultura con la quale si approccia il fenomeno che va modificata profondamente. E’ necessario infatti entrare nella dimensione che le alterazioni climatiche che stanno infierendo sul nostro territorio sono un fatto oramai irreversibile, e che la prevenzione riguarda, oltre che i necessari investimenti da attivare (che da soli potrebbero coprire una intera legge di bilancio), anche i comportamenti: pianificazione urbanistica corretta e suo rispetto rigoroso, rispetto delle regole architettoniche e geologiche, attenzione nell’uso dei materiali di qualità in sede costruttiva sono oramai requisiti necessari per intervenire in tale settore.

Il problema quindi coinvolge non soltanto una corretta programmazione degli investimenti, che in sede centrale raccolga le istanze locali e le ordini in una scala di priorità, una velocizzazione delle procedure, ma anche una cultura del rispetto del territorio e delle regole urbanistiche e costruttive da parte di imprese e popolazione. Le possibilità propulsive del settore sono immense: secondo una stima Ance, se si mettessero in sicurezza tutte le aree a rischio del Paese, si creerebbero 680.000 posti di lavoro diffusi su tutto il territorio, ma ovviamente maggiormente concentrati nel Mezzogiorno, dove, come si è detto, insistono i fabbisogni maggiori, per la presenza di regioni a forte rischio come Campania, Sicilia o Sardegna. L’effetto-reddito generato dall’attivazione dei cantieri è stimabile in circa 95 miliardi in più di valore aggiunto. Tali posti di lavoro e tali potenziali di crescita del valore aggiunto sarebbero spesso attivati nelle zone più interne e più povere del Paese, contribuendo quindi ad un riequilibrio territoriale del potenziale di crescita, contenendo il rischio di spopolamento e le migrazioni interne. Il maggior presidio antropico nelle aree interne, a sua volta, consentirebbe di tutelare maggiormente il territorio dal rischio di frane connesse all’abbandono di attività agricole, forestali o urbanistiche con caratteristiche di contenimento dei suoli. Un gioco in cui vincerebbero tutti, insomma.