La rabbia, lo sconcerto, l’indignazione trasudano in questi giorni, in queste ore dalle dichiarazioni pubbliche di tante voci autorevoli e appassionate del Sud: dal Presidente della SVIMEZ a quello del CENSIS, dal Direttore del Quotidiano del Sud agli editorialisti di tante altre testate nazionali.
E finalmente – forse troppo tardi, com’è spesso accaduto – cominciano a protestare anche i presidenti di alcune Regioni meridionali: Contro lo scippo che si sta perpetrando, anche coi fondi del PNRR (Piano Nazionale Recupero e Resilienza) – a giudicare da quel che emerge dalle ‘Bozze’ di Piano. De Luca ha lanciato l’appello ad unirsi; a raccoglierlo intanto è il Presidente della Basilicata Bardi “È inaccettabile che al Sud vada la quota residuale del 34 per cento stabilita dal governo e che anche su questo ci sia una chiusura da parte dell’esecutivo. Dobbiamo pretendere che il 70 per cento delle risorse complessive vada al Mezzogiorno così come stabilito dalla Commissione europea. La posta è alta. È in gioco il futuro stesso della Basilicata ed è una partita che non possiamo perdere. Per questo faccio appello ai deputati e senatori lucani perché impediscano questo scippo di risorse a vantaggio delle Regioni del Nord e della pesantissima macchina statale”.
Invece, ancora nessuna reazione popolare, dei Movimenti socioecologici meridionalisti. Non pervenuta alcuna seria e determinata reazione dai partiti – nessuno escluso!
S’è pronunciato persino l’ex presidente della Corte Costituzionale Cesare Mirabelli: “È opinione comune che la buona, corretta ed efficace utilizzazione, come è dovuto, delle risorse finanziarie che l’Unione Europea rende disponibili con il Recovery Fund, costituisca, per ammontare e obiettivi, una straordinaria e non ripetibile occasione di ripresa e sviluppo del Paese, e consenta finalmente di perseguire e raggiungere il riequilibrio economico e sociale tra le sue diverse aree, assicurando nuove prospettive di sviluppo per il Mezzogiorno. (eppure non sembra esserci) adeguata rispondenza all’esigenza di rimuovere gli squilibri e assicurare il rilancio del Mezzogiorno, condizione per lo sviluppo dell’intera comunità nazionale. … Non può essere considerata priva di fondamento la possibilità di prefigurare un vincolo costituzionale per la ripartizione di queste straordinarie risorse finanziarie, in conformità agli indirizzi parlamentari. Anche le disposizioni programmatiche hanno un valore precettivo, e se ci si discosta palesemente da esse ne deriva una illegittimità che la Corte costituzionale, se investita della questione, potrebbe sanzionare.”
Alla fine, s’è ripetuto quel che è già accaduto nei mesi scorsi quando s’era tentato di legittimare per via di legge quell’appropriazione subdola – che di fatto si ripete da decenni – delle risorse (ammontano ormai complessivamente ad oltre 1000 miliardi di euro) destinate ai servizi di cittadinanza nel Sud. La gridata spudoratezza dei ‘governatori’ settentrionali, è riuscita anche stavolta, per effetto boomerang, ad aprire gli occhi pure ai cecati! E nonostante i diversivi e la disinformazione – tutti appassionati ai veglioni, al capodanno, alle vacanze sulla neve, alle verifiche di maggioranza e alle aperture al governo (quanto interessate!) perfino dei legaioli – è venuto finalmente a galla il vero intento di gran parte del potere di questo Paese. Come ha scritto Roberto Napoletano sul Quotidiano, nelle diverse bozze del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza i numeri che finanzierebbero gli interventi al Sud sono ballerini: “Con il nulla sono riusciti a fabbricare anche due bozze dove l’ermetica espressione “fondi additivi” passa da una prima quota indicata per il Mezzogiorno del 30% (circa 33 miliardi complessivi) a una seconda generica quota del 34% senza alcun importo in termini assoluti. Allora, tanto per essere chiari, il primo 30% vale realmente uno scarsissimo 20% e il generico 34% indicato successivamente o non vale niente o costringe a rinviare di almeno un mese l’elaborazione del Piano italiano di Next Generation Eu perché va tutto totalmente riscritto in quanto sono miliardi che ballerebbero da un progetto all’altro”.
Di che si tratta? Per dirla in estrema sintesi, l’Unione Europea, per rispondere alla crisi prodotta dalla pandemia di Coronavirus, ha deciso di affiancare il bilancio pluriennale da 1.090 miliardi di euro (Mff 2021-2027) – che ricomprende i fondi di coesione e il fondo Fesr -, al meccanismo per la ripresa (Next Generation Eu) – di 750 miliardi di euro, comprendente il Recovery fund (672 miliardi tra prestiti e garanzie). Con il vincolo che il 30% delle risorse per il rilancio dell’economia debba essere utilizzato per transizione sostenibile, e che almeno il 20% delle stesse risorse vada utilizzato per l’agenda digitale.
Stando alle bozze presentate fino a oggi dal Governo italiano relativamente al Piano Nazionale di Recupero e Resilienza, 40,1 miliardi saranno destinati all’efficienza energetica e riqualificazione degli edifici, e dunque anche alla proroga del superbonus al 110%; 18,5 miliardi per la transizione energetica e la mobilità locale sostenibile, 9,4 miliardi per la tutela e la valorizzazione del territorio e della risorsa idrica e 6,3 per impresa verde e l’economia circolare, 9,1 per la ricerca all’impresa. Nella bozza, come spiega Il Sole 24 Ore, sono inoltre previsti iter rapidi per nuovi progetti greenfield rinnovabili e investimenti per la produzione di idrogeno in siti brownfield e da elettrolisi, e progetti di ricerca e sviluppo per le applicazioni di idrogeno a usi finali. Tra le proposte, infine, c’è anche un riordino delle spese fiscali e della tassazione ambientale.
E qui è necessaria una prima precisazione. La predisposizione del piano per accedere alle risorse del Recovery Fund – che si sperava venisse costruito tenendo presenti le risorse complessive assegnate all’Italia dall’Europa, col bilancio poliennale e col Next Generation.Eu, oltre a quelle proprie del bilancio statale – doveva essere l’occasione per una riflessione collettiva che attraversava l’intero Paese e ne scioglieva i nodi principali, il più duro, quello del riequilibrio Nord-Sud del Paese: “C’è una preziosa opportunità per raggiungere un ampio accordo tra tutti i partner sulla strada della ripresa e per costruire la resilienza delle nostre comunità regionali su basi rinnovate e più solide, ha sottolineato la Commissaria europea Ferreira. E’ necessario rafforzare la nostra coesione sociale e territoriale, correggendo gli squilibri tra le varie regioni europee”. Insomma, al primo posto doveva esserci – dovrebbe esserci – la promozione della coesione economica, sociale e territoriale dell’Unione (i Nord e i Sud di ciascun Paese), seguita dal rafforzamento della resilienza economica e sociale, dalla mitigazione dell’impatto sociale ed economico della crisi e dal supporto alla transizione verde e digitale. A patto che le Regioni sappiano fare la loro parte, quelle meridionali anzitutto. E per quanto ci riguarda:
Servono soldi, intanto e va detto a chiare lettere,– e questi deve sborsarli lo Stato incrementando adeguatamente la percentuale della spesa per i servizi essenziali, ben oltre il 34% prospettato – per ‘risarcire’ anno dopo anno lo “scippo” di oltre 1000 miliardi di euro perpetrato ai danni del Sud in questi ultimi decenni. Perpetrato dalla pervicace ‘mancata’ applicazione del d. legisl. 502/1992 e successivi provvedimenti (che stabiliva l’obbligo della determinazione degli standard di spesa individuale e la ripartizione delle risorse occorrenti sul territorio nazionale per il funzionamento dei servizi essenziali – istruzione, sanità, assistenza, previdenza, ecc.). Va sostituito finalmente l’odioso criterio della ‘spesa storica’, che è andata a premiare in tutti questi lustri quelle Regioni che storicamente hanno da sempre speso più del Mezzogiorno). E lo stesso ragionamento concerne gli stanziamenti per investimenti.
Servono soldi per la sanità, ma quanti e per quale concetto di salute e di sistema sanitario? E quanti sono quelli destinati al riequilibrio nord/Sud, la cui mancanza finora ha reso evidentissimi gli effetti della pandemia?
Servono soldi per la scuola, ma quanti e per quale idea di istruzione, formazione e ricerca? E quanti sono quelli destinati finalmente agli asili nido, al tempo pieno, ai trasporti e all’edilizia scolastica fatiscente, al recupero degli abbandoni, delle povertà educative e della dispersione scolastica, alla formazione professionale dignitosa, all’Università e alla Ricerca e all’Innovazione nel Sud e, specularmente, per scoraggiare la fuga dei cervelli che nel Sud ha raggiunto picchi drammatici?
Servono soldi per le infrastrutture, ma per fare le grandi opere climalteranti e che devastano i territori o per il riassetto idrogeologico e la ristrutturazione delle reti idriche del Paese e per riportare finalmente il Sud in Italia – restituendogli cioè il ruolo strategico e portuale potenziale al centro del Mediterraneo – estendendo la rete ferroviaria dell’Alta Capacità, dando un minimo spessore a quella regionale e locale, rafforzando di conseguenza l’armatura urbana e territoriale meridionale?
Serve spesa pubblica, ma per le armi (Conti alla mano più di 17 miliardi di euro finirebbero direttamente al comparto bellico e aero-spaziale, più una quota rilevante del fondo da 36 miliardi richiesti dal Ministero dello Sviluppo Economico per gli investimenti in nuove tecnologie, cyber security, Intelligenza Artificiale, ecc… Il Covid-19 è una tragedia per il pianeta e i suoi abitanti, ma non certo per le industrie di morte…) o per i diritti delle persone?
Che ciascuna di queste domande – e le molte altre che si potrebbero analogamente fare – rappresenti un bivio sul modello futuro di società, è un pensiero che sfiora il governo e il Presidente del Consiglio, le Regioni e purtroppo anche quelle meridionali, è tutto ancora da verificare.
D’altronde, se, come ci raccontano, la pandemia è un nemico esterno venuto a turbare il libero fluire di una società pacificata, non servono grandi discussioni: basta mettere in campo i campioni nazionali dell’economia e chiedere loro di presentare i progetti e gestire le conseguenti risorse.
Giustizia climatica, diseguaglianza sociale, conversione ecologica, società della cura.., nessuna di queste definizioni sembra trovare il benché minimo spazio, mentre tutto si incentra sull’idea di modernizzare il Paese, come se quello che sta succedendo non richiedesse alcun cambio di paradigma.
Questa situazione chiama davvero in causa la politica, i partiti di Governo e di opposizione, ma per parlare al Paese non tanto di incarichi ma del merito delle proposte, della visione che si vuole portare avanti grazie alle risorse europee, in modo da andare oltre le scelte ordinarie. Di sicuro è inaccettabile che si dica che il problema è la fretta, che non ci sono i tempi per aprire un confronto su queste proposte, pena problemi con Bruxelles e ritardi nel far partire i cantieri. Dei soliti vecchi cantieri.
Si chiama Next generation Ue, deve guardare alla prossima generazione di italiani, non a salvare i soliti interessi. Stiamo parlando di una delle maggiori iniziative in termini economici messe in campo dalla nascita della Repubblica e che si inserisce dentro un quadro di pesantissima crisi ecologica, sanitaria, economica e sociale. Logica vorrebbe che, di fronte a una sfida di tali proporzioni, si coinvolgessero e si mobilitassero le migliori risorse sociali per costruire, con la partecipazione di tutt*, un nuovo modello di società.
Che fare?
Sembra evidente come chiunque abbia a cuore la giustizia sociale e ambientale non possa più limitarsi alla pur necessaria difesa dell’esistente, ma debba porre la sfida sull’alternativa di società; per una società che metta al centro la vita e la sua dignità, che sappia di essere interdipendente con la natura, che costruisca sul valore d’uso le sue produzioni, sul mutualismo i suoi scambi, sull’uguaglianza le sue relazioni, sulla partecipazione le sue decisioni, insomma la società della cura. Pur non dimenticando di vivere in una società di mercato e di dover comunque fare i conti con lo stato di cose esistenti!
Ma, per intanto, le regioni del Mezzogiorno per evitare il secondo tentativo di ‘scippo’ devono federarsi e diventare interlocutore unico. E se ciò non basta, dovrebbero rivolgersi alla Corte Costituzionale italiana, alla Corte Europea. Questo impegno morale e politico verso le comunità meridionali, però, non può nascondere le responsabilità delle sue istituzioni locali – pubbliche e private. Come non restare sconcertati dal dato relativo alle risorse residue del Programma comunitario per le regioni svantaggiate 2014-2020, pari a oltre 30 miliardi di euro sui 54 programmati? E, cosa ancora più grave, che dei 24 miliardi di euro impegnati la spesa reale non ha superato i 5-6 miliardi di euro? Ora, in soli tre anni dovremmo essere in grado di impegnarne oltre 30 miliardi di euro? Un obiettivo quasi impossibile ed infatti il Governo sta anticipando la richiesta alla Unione Europea di poter utilizzare quota parte delle risorse, non spese nei sei anni passati, nel Programma 2021-2027.
Anche per questo le Regioni del “Mezzogiorno” debbono federarsi: per dire all’Unione Europea quale debba essere l’allocazione delle risorse non impegnate e non spese. Nella tragedia pandemica, si presenta una occasione propizia: l’Unione ha detto apertamente di essere disposta ad accettare un nuovo e diverso utilizzo delle risorse previste dalla Programmazione comunitaria 2014-2020 a valere sui 4 Fondi Strutturali e di Investimento europei in modo diverso da quello stabilito nel 2014. E non è detto che uguale opportunità non possa darsi per i fondi del Recovery plan: se sono destinati principalmente al Sud, non si può ovviare all’incapacità di programmazione delle sue Regioni. Si è perso tempo prezioso; qualcuno ci ha speculato intenzionalmente. Ma stiamo parlando del futuro delle prossime generazioni, che non può essere pregiudicato da colpevoli incapacità: bisogna inventarsi un’infrastruttura pianificatoria partecipata in grado di sfornare proposte efficaci; se non già per il 2021, almeno per il periodo di validità delle misure e comunque per il tempo necessario per conseguire l’obiettivo del riequilibrio territoriale, ecologico e della buona occupazione nel Sud!
Oggi i singoli Presidenti delle Regioni non hanno più nessun alibi. Il Mezzogiorno può crescere solo se si libera delle deformazioni concettuali legate alla sommatoria di programmi ‘a canna d’organo’, cioè settoriali e locali. Peggio ancora: degli ‘elenchi della spesa, come sembra il Piano predisposto dalla Regione Basilicata! Deve cambiare l’approccio del consenso elettorale locale, degli immediati vantaggi prodotti da determinate scelte.
Il Mezzogiorno presenta una caratteristica comune: l’assenza infrastrutturale, legata alla mobilità delle persone e delle merci, efficiente ed efficace, con un danno alla sua economia pari a circa 30 miliardi di euro annui. Già impegni come questo reclamano da parte delle otto Regioni quanto meno un’idea finalmente ‘meridionalista’ del futuro delle nostre terre.
E senza dimenticare, perché costituisca monito per tutti, quel che dovrebbe farci sentire tutti un po’ orfani – soprattutto oggi: cioè, l’assenza di una società compresa della propria responsabilità sociale e nazionale. Ad un popolo impaurito si può far accettare ogni provvedimento. Se il popolo è costituito da individui senza identità, se è una somma di elementi senza unità alcuna giacchè sembra averli ripudiati da tempo in nome di un falso, indotto modernismo: non ha lingua, non ha cultura, non ha tradizioni popolari, non ha religione non è più un popolo, ma solo massa omogenea plasmata dalla finanza. Il popolo non è più popolo da decenni, al suo posto vi è una massa informe che vive di desideri indotti e disperazioni contingenti. Quel che manca è una “società nella società”, quella rappresentata finchè c’è stato dal Movimento operaio e dalle sue istituzioni. E che del Mezzogiorno ha salvaguardato finché ha potuto la dignità. Questo debbono capire oggi i movimenti socioecologici, soprattutto nel Mezzogiorno: se non ci si impegna a diventare “società nella società”, non può esserci futuro per il Sud!