Sono trascorsi oltre settanta giorni, undici settimane durante le quali l’emergenza Covid-19 ci ha costretti a casa, diventata ufficio, asilo, scuola, università, laboratorio, palestra. La nostra vita, riempita illimitatamente da figli, genitori, mogli, mariti, compagni, animali e scandita da ritmi spesso ingovernabili , ha consumato giornate senza fine che, a molti sono apparse come un tempo sospeso, non vissuto ed ingiustamente sottratto. Dei primi giorni di marzo, quando tutto è esploso così violentemente, ci rimane l’ansia, l’inquietudine, l’incertezza di una ripresa ancora precaria e lontana, oltre ai tanti interrogativi su come la nostra vita cambierà per davvero. Se il tempo fosse stato realmente sospeso, undici donne, tante quante le settimane di lockdown, oggi potrebbero porsi le stesse nostre domande. Sarebbero con noi a riprendersi quel tempo impegnato, reclamato, donato, sofferto. Invece, i giorni e le ore sono scorse maledettamente, tra le violenze, le offese, le torture, le maledizioni più quotidiane del solito, fino all’epilogo quasi naturale e scontato nell’immaginario comune. Vittime della feroce malattia del possesso, della proprietà, del dominio e della possanza maschile che, se non ammette giustificazioni, di certo ancora meno legittima una qualsiasi spiegazione. Invece, quando si parla di vittime di femminicidio è ridondante riscontrare nella cronaca una scusante camuffata da motivazione per l’omicida, mentre la vittima passa inosservata, a meno della dettagliata discrezione di una morte spietata. Undici giustificazioni. Il terrore del Covid, il desiderio irrefrenabile di evadere dalle restrizioni obbligatorie, l’ossessione, la sofferenza della quarantena, la paura della separazione segnano nel modo peggiore le storie di queste donne, soprattutto nella difesa sociale dei propri assassini, il cui ruolo di madre, moglie, lavoratrice, sorella viene cancellato da un perché tanto inutile quanto offensivo, insieme alla loro anima e al diritto alla vita. Ma in fondo, se il giudice siciliano nella sentenza parla di “delitto inevitabile” dopo che Marianna, uccisa dal marito, ha denunciato per 12 volte o il medico è incuriosito tanto dal disgusto quanto dal piacere avvertito durante lo stupro mentre visita e interroga la vittima, si comprende quanta ossessiva perversione, quanta chiusura mentale e culturale, più che assenza di sensibilità sia stata seminata ovunque e nei secoli. Appare, alla luce di tutto questo ma molto altro, quasi inutile chiedersi quanto possa valere la vita di una donna per la società intera, quanto possano incidere le sue competenze professionali se è costretta a sollecitarne la presenza nei contesti di governo del Paese che la escludono sistematicamente, o quanto valga la maternità se al colloquio di lavoro viene liquidata alla sola intenzione. La cultura di genere ha ed ha avuto senz’altro il suo peso, sebbene nei luoghi comuni si ricorra allo stereotipo di società patriarcale per riferire semplicisticamente in causa ed effetto muovendo, in realtà molto poco verso quello che è ormai uno slogan. Tuttavia le implicazioni attuali, a fronte di innovazione e progresso determinanti nella evoluzione ed emancipazione ben oltre le aspettative, devono obbligarci ad altre riflessioni ed altri strumenti di intervento. In queste undici settimane, una indagine del CNR ha riferito che i 228 centri antiviolenza hanno registrato un calo del 50% delle richieste di primo accesso e di denunce in quasi tutte le procure e del 40% dei contatti con le donne già seguite. Le abbiamo chiuse insieme ai loro aguzzini, chiunque fossero, mariti o figli e abbiamo consegnato le chiavi della già limitata libertà a chi non aspettava altro. Un numero di emergenza ha potuto ben poco contro un respiro che non sfiora ma uccide. Questa epidemia ha drammaticamente dimostrato che il percorso da promuovere necessita di maggiore impegno, sforzo e risorse e che i livelli sui quali agire sono espressamente individuali perchè urgenti, ma soprattutto collettivi. E dove per collettività non s’intende una entità sociale distante dal suo governo, avulso dagli accadimenti e semplice regolo di giustizia, di interventi o misure. Un governo che esclude, seleziona, legifera con artifici “rosa” peggiori delle stesse mancanze (o non riorganizza gli iter procedurali fino alla tutela completa delle vittime), traccia un percorso sfavorevole anche all’integrazione della cultura di genere che ha bisogno delle differenze e delle contaminazioni per ritornare utile a tutta la società. E quando la traccia si scava per opportunità di qualsivoglia natura, i solchi diventano pantani e poi sabbie mobili, all’interno delle quali è difficile muoversi verso gli obiettivi e gli orizzonti programmati mentre la cancrena dei principi e dei valori della democrazia corrode anche le piccole conquiste civili. C’è bisogno di uguaglianza e di equità, c’è bisogno di “centralità” del e nell’esempio che porta alla naturale svolta verso un modello di società moderna ed inclusiva, oggi quanto mai indispensabile per i cittadini. Come è indispensabile pensare al genere femminile smantellando, prioritariamente, il sistema violenza che si è strutturato ovunque, come se fosse una vera politica relazionale: dalla famiglia ai luoghi di lavoro passando per le aule di governo e le commissioni istituzionali. Una politica della violenza, in primis psicologica, che riduce fino ad azzerare i sogni e i desideri di emancipazione, che lega a bisogni affettivi malati allontanando sempre più l’orizzonte della indipendenza economica già vessato da altre politiche, maldestre e spesso ingannevoli rivolte ad un mondo femminile, in affannata corsa per ritagliarsi un posto nella comunità come se dovesse meritarlo, ma al quale anche in questa emergenza si è chiesto troppo. Undici settimane, undici donne ammazzate, undici donne nominate nella task-force. Se non fosse crudele tutto questo, sarebbe tutto sommato beffardo.