“LA VORIA”, I RACCONTI DELLA MEMORIA DI PEPPINO COVIELLO

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Percorsi sulla linea del tempo

Mario Santoro
Il volume “La voria” di Peppino Coviello rappresenta davvero un particolare, straordinario capitombolo nel lontano passato fino all’infanzia- fanciullezza dell’autore, in un mondo, quello contadino, fatto di miseria e di lotta dura per la sopravvivenza e risponde alla esigenzia primigenia di raccontare, quasi per tema della perdita definitiva della memoria, e dunque di testimoniare, a vantaggio delle generazioni giovanili, una vita di stenti, di sacrifici enormi, di fatiche e di sudore, di modi semplici e quasi primordiali, di costumanze ataviche in un sistema relazionale lineare e diretto, all’insegna del pudore nel manifestare sentimenti, mai o quasi mai, espressi con le parole ma affidati sovente alla gestualità minima, al non detto, al cenno, allo sguardo. Inoltre testimonia, ove ce ne fosse bisogno, l’esigenza di dichiarare apertamente il senso di appartenenza a quel mondo e dunque la propria identità. Questa urgenza di proiezione nel passato è testimoniata egregiamente dal titolo della raccolta delle piccole storie che si connotano anche e forse soprattutto, come documentazione fedele e volutamente distaccata nell’oggettività della narrazione e nell’impegno del’autore di accompagnare gli elementi costitutivi dei racconti con termini dialettali, che costituiscono una sorta di collante, e sono opportunamente riportati in corsivo. Dunque “La voria” è, come Peppino Coviello scrive nel racconto primo dal titolo omonimo, la bora, il vento gelido, che da Trieste, passando per il Gargano e sfiorando il Vulture, raggiunge la valle di Vitalba, infilandosi silenzioso tra i filari di canne delle campagne delle contrade aviglianesi. Si tratta non solo di un vento particolarmente freddo da raggelare i poveri contadini che in passato non possedevano indumenti a sufficienza per proteggersi, ma anche molto temuto e considerato nemico infido e traditore propiziatore di cose sinistre e perciò da temere e, comunque, da non sfidare apertamente. Per rendere al meglio questa idea l’autore fa bene a tirare in causa il compianto Peppino Pace e la sua memorabile espressione “Ngannezza la voria”, tanto significativa quanto difficile da tradurre in lingua itaiana ricorrendo inevitabilmente a circonlocuzioni, ossia a giri di parole e rischiando di perdere le implicite misteriose significanze e magari con esse anche l’efficacia. Ma c’è di più. Contribuiscono a rendere vivo il passato anche la brevità dei racconti e lo stile semplice e stratificato scelto dall’autore che adotta la modalità di comunicazione tipica del mondo rurale antico, ricorrendo ad un parlare piano e posato, stile “c’era una volta” ma con tanto di profondità e qualche volta con una kinea di sentenziosità pacata e con implicita la pausa di riflessione obbligata, se non anche il sospiro prolungato e una sottile presenza di compiaciuta malinconia e quasi di rimpianto come sempre accade per le buone cose del passato.  Anche la copertina, fortemente antichizzata, per ripensata scelta dell’autore, si ammanta, con i colori ovattati del presumibile tramonto sullo sfondo, di nostalgia, di arcano, di straordinariamente dolce nella staticità composta delle quattro figure di anziani; figure certamente assai care, sedute al muretto con pose pressocché simili, in atteggiamento di riposo benefico, sostanzialmente sereno se non anche appagante, nell’immobilismo dei corpi e soprattutto delle mani sovrapposte e nella somiglianza dell’abbigliamento e dei cappelli a due a due piatti e a cocuzzolo. E non si tratta di dettagli da poco che fanno parte integrante dei racconti e costribuiscono a realizzare l’atmosfera delle dieci storie legate tra loro come da un filo d’ Arianna, grazie alla memoria che non si inganna e le tiene interconnesse. Va da sè che andrebbero lette, o ascoltate da una voce suadente, dinanzi a un camino acceso, con appena un filo di fumo e sovente battendo il palettino sul ceppo per far volare per l’aria miriade di scintille, le tanto vivide faville dalla vita brevissima, le cosiddette ‘monachine’ panzacchiane, scintillanti e belle, in una sorta di incanto senza fine. E, naturalmente, ci vorrebbero pause piuttosto lunghe per consentire riflessioni e meditazioni profonde sul significato primo dell’esistenza grama di una volta, capace, nella penuria dei mezzi di sussistenza, di assicurare ai bambini e ai fanciulli, cui va la predilizione dello scrittore che in essi si rispecchia e si ritrova, un’infanzia-fanciullezza piuttosto serena. E allora i racconti si snodano dal vicino al più lontano, dall’interno all’esterno ma non cambia il quadro di miseria che domina ma non intristisce. E così la casa di Caniuccio, di pochi metri quadrati e con il pavimento fatto di grosse beole e un soffitto di tavole con tanto di spifferi e con letti che erano piuttosto giacigli ricoperti di vecchi pastrani comprati da zi Tonne, ‘il commerciante di Miracolo, non offre il necessario calore tanto più che, dopo la voria che per tutta la notte ha fischiato, il piccolo, al risveglio, trova nella parte inferiore del suo giaciglio, la neve. Ed è grande la sua meraviglia e il suo ingenuo stupore! Segue il racconto “Una cena speciale”. Dopo una faticosa e lunga giornata di lavoro nei terreni lontani dal borgo, nelle località di “lu Ruche” e di “Purcine”, per fortuna confortata appena da un tiepido sole, finalmente i contadini rientrano in casa e già pregustano la cena preparata cu l’aggette dalla mamma (g)ranna. In realtà si tratta di una modesta minestra di cavoli con un po’ (sempre troppo poco) di ‘acciatora’, ossia di lardo di maiale sminuzzato con la rusulecchia e accompagnata dalla immancabile carchiola, in sostituzione del pane che sovente mancasa sulla tavola. Cibo modesto e comune a quasi tutte le famiglie e tuttavia gradito al punto da alimentare anche il buon umore per l’illusione di poter gustare anche un miracoloso pezzo di carne che, dopo quache battuta tra l’ironico e il faceto, con amara sorpresa si palesa come un topo, per sua sfortuna finito nella minestra, per mera distrazione della nonna.  Lo scoramento, come si può immagnare, è totale ma non ci sono parole di rimprovero, solo un po’ di rammarico espresso, con rassegnata desolazione da tatte (g)ranne: Ama appèna accummensata a magnà, nun putime rumané resiune, né putime magnà pane assutte!  Come dire: peccato che ce ne siamo accorti troppo presto! In questi caso, poiché il bisogno aguzza l’ingegno, accade un miracolo, grazie alla previdenza. Per fortuna mamma (g)ranne risolve con l’acqua sala, condita un po’ meglio del solito che finisce per avere un sapore squisito e per ristabilire una bella atmosfera. C’è poi la storia del lavoro da svolgere nella lontanissima San Giuliano, nel comune di Forenza, che vede i due giovani Salvatore e Vito Donato protagonisti. Di notte il nonno sveglia il nipote perchè si alzi: nel sonno leggero ha sentito il fischio del treno ed è dunque ora che il nipote Vito Donato, si alzi e si incammini. Insonnolito il giovane balza dal letto e va a svegliare il compagno di lavoro che, più fortunato, possiede una sveglia e scopre che c’è un equivoco. Infatti segna appena le 11,45. Il fischio del treno ultimo della giornata e non del primo treno del giorno successivo. Entrambi possono tornare a dormire. E qui il lettore può ripensare al modo primitivo di calcolare il tempo e con esso alle attività: il suono della campana, il sorgere del sole al mattino, il tramonto dello stesso alla sera e soprattutto il passaggio dei treni Direzione Foggia o Potenza. Lo scrittore, che è decisamente onnisciente, racconta fatti e situazioni con indulgenza ma senza andare oltre il dato della realtà e si astiene, giustamente, dal commentare lasciando al lettore la libertà di riflettere, di seguire il filo dei suoi pensieri, di rapportarsi, se e come può, a quel mondo di miseria. E proprio questa sua discrezione rende la scrittura assai gradevole e con forte senso di testimonianza. Cosi relazioni, rapporti, rispetto reciproco, pudore, scambio di pareri, comunanza di abitudini estese a generazioni intere si snodano con ordine perché ogni membro della famiglia sa stare al posto suo e le comunicazioni, limitate allo stretto necessario o addirittura all’indispensabile e quasi senza aggettivazioni, sono sempre chiare e non ammettono troppi commenti. L’autore volta pagina per presentare nuovi aspetti. Ora parla del Natale, con le tradizioni da rispettare, gli spaghetti da cucinare con abbondanza per averne anche al mattino seguente e la immancabile forchettata da donare al fuoco per l’assaggio del Bambino. Accenna solo vagamente al clima di umile festa e all’atmosfera particolare e carica di umanità. Poi, d’un balzo, si sposta alla mietitura, quella che una volta si faceva con la falce in pugno, le canne alle dita, con il nonno a guidare i mietitori in fila e senza concedere ad alcuno di rimanere indietro, in un lavoro pesante e di grande abilità mentre le donne erano impegnate a preparare i diversi pasti, migliori del solito, grazie a prodotti tenuti gelosamente custoditi durante l’inverno. Nella mietitura era anche consentita qualche bevuta in più di buon vino conservato, anch’esso con cura, per l’occasione. Dopo la mietitura e la impegnativa trebbiatura segue la spannocchiatura sull’aia con lunghe pertiche e colpi secchi e precisi per staccare i chicchi, prima del ripasso con le mani, magari di sera con la luna a illuminare e qualche tentativo di canto tra i giovani, e qualche storia che il più anziano raccontava per tenere desti e impedire che si potesse cadere preda del sonno ristoratore. L’autore, che è sempre vigile e rigoroso nel non eccedere, sposta l’attenzione sui fanciulli, per i quali mostra attenzione speciale e racconta la loro vita e soprattutto i loro  passatempi. E così salta fuori, la proposta di Vetucce, di andare a fare il bagno nel fiume Bradano, scegliendo le tonze più adatte. Ovviamente viene accettata con entusiasmo dai suoi compagni: è un’esperienza che, pur con qualche pericolo e rischio, risulta entusiasmante; lo stesso accade per la brillante idea che avanza Angelo Vito: il bagno alle pecore prima della tosatura e a seguire una bella e ricca furnedda. Non manca l’esperienza del primo giorno di scuola per Giacumine con tanto di timori e batticuore, presto scomparsi grazie all’amabilità del maestro Giuseppe Labella di Rionero. L’autore sottolinea il piacere di apprendere cose nuove, di imparare a leggere, di conoscere il compagno di banco, di fare esperienze che lo aiutano a crescere. Chiude la raccolta la storia dal titolo Lu ndarme che ogni anno, nella festa importante della frazione di Possidente, si ripeteva (e forse si fa ancora) ed era imperdibile suscitando molta curiosità. Due volontari si sfidavano: avrebbero mangiato un piatto enorme di “zitoni”, conditi con ragù di pecora servendosi solo della bocca, senza l’ausilio delle mani. Ed è facile immaginare la conseguenze. Le esperienze si intrecciano e riaffiorano alla mente dell’autore che le ripensa nella mente, le accarezza, le plasma senza velocizzare il discorso che vuole mantenere piano, morbido, quasi a tratti neniato e perciò evita opportunamente talune frasi ellittiche e, a tratti, sembra volontariamente indugiare su alcuni passaggi, attraverso il rimando a similitudini, ad ossimori, a forme contrastive, a confronti e a qualche forma anaforica che non dispiace affatto. La scrittura, come già indicato, resta sempre a focalizzazione zero, ossia con la certezza che lo scrittore sa tutto quel che c’è da sapere e anche di più e quindi il suo punto di vista, che raramente viene espresso, è tuttavia palese. Intanto il lettore gode tutte le storie, ripensa i luoghi di sofferenza e di fatiche che hanno nomi curiosi, sui quali forse varrebbe la pena indagare: la Zola, lu Ruche, Purcine, Scazzidde, la Ciuffetta; passa in rassegna i tanti termini riportati: quagliatura, spunzile, saima, cannedde, vandera, murgia; ripete talune espressioni significative: la luata re secca, lu muzzeche, i ciringuli, la spangedda, lu rezzule; riconsidera con benevolenza i vari personaggi con particolare riferimento ai più piccoli: Caniucce, Mngucce,Vetucce, Titte, Tonnicchie, Salvatore, Angelo Vito, Runatucce Peppe Rocche, Vite Mechele, Giacumine; torna aguardare la copertina con i quattro simpatici uomini in posa, increduli forse di potersi permettere e godere il riposo, e si sofferma, per far certamente piacere allo scrittore sul secondo, per chi guarda dalla sinistra e sul cappello spiritoso a punta. Gli pare quasi di riconoscerlo e di scorgere qualche linea di somiglianza con lo scrittore. Si chiudono, almeno momentaneamente, le storie che, in realtà, non finiscono mai e certamente l’autore tornerà a scriverne, magari cambiando il punto di vista; e questo perché la scrittura è sempre quello straordinario, amabile male da cui non si guarisce, per fortuna.
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Sull' Autore

Mario Santoro Mario Santoro è nato a Miracolo (Avigliano) ed è residente a Potenza. Già docente di materie letterarie, è poeta, scrittore e critico letterario. (Mariosantoro43@gmail.com) Ha pubblicato: -Embrici- poesie -Alfagrafica Volonnino- Lavello, 1986; -Embrici e poi- poesie -Alfagrafica Volonnino- Lavello, 1987; -Concerto di memorie- romanzo -Ed. La Vallisa- Bari, 1989; -Concerto di memorie- romanzo rid. Sc. Medie -Ed Appia 2- Venosa 1991; -Pianeta uomo- Tematiche di Attualità -Ed Il Girasole- Napoli, 1991; -Pianeta uomo- Tematiche di Attualità- Formato tascabile -Ed. Il Girasole- Napoli 1991; -Sentieri di ragno- poesie -Ed. Il Girasole- Napoli 1993; -Uomo e società- Tematiche di attualità- Ed Il Girasole- Napoli, 1994; -Elementi di linguistica e psicomotricità- Ed Il Girasole- Napoli, 1994; -Meridiani e paralleli - poesie -Ed La Vallisa- Bari, 1997; -Scorci di tempo- Poesie e prose- Unitre sede di Potenza, 1999; -Viaggio nella terra dei Suomi- cronaca di un’esperienza- Ed Il Portale- Pignola, 1999; -Il riverbero della luna- romanzo –ErreciEdizioni- Potenza, 2000; -Alla fontana...le parole- La Grafica Di Lucchio- Rionero in Vulture (Pz), 2009; -Stagliuozzo come strazzata- Centro Grafico Castrignano- Anzi, 2010 -Il grano azzurro- romanzo ErreciEdizioni- Anzi (Pz), 2023 -Viaggio con la madre- romanzo ErreciEdizioni- Anzi (Pz),2023 Ha pubblicato, in qualità di critico letterario i seguenti volumi: -Oltre le barriere- Ospiti del centro La Mongolfiera- Tip. L’aquilone- Potenza, 2002; -La memoria e l’identità- Antologia di poeti e scrittori lucani volume marrone- Consiglio regionale della Basilicata- Potenza, 2004; -La Memoria e l’Identità: Lucania versi- Cento schede- Consiglio Regionale di Basilicata – Potenza, 2004; -La memoria e l’identità- Antologia di poeti e scrittori lucani volume azzurro- Consiglio regionale della Basilicata- Potenza, 2005; -C’era una volta...insieme- raccolta di fiabe- Dipartimento salute mentale A.S.L. num.2 Potenza. Centro sociale La Mongolfiera, Coop Benessere- Potenza, anno 2006. Ha scritto e pubblicato centinaia di percorsi su poeti, scrittori, artisti. E' autore di percorsi poetico-letterari a tema pubblicati su riviste e antologie.

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