Marco Di Geronimo

L’impatto economico del coronavirus sarà enorme e rischia di travolgerci in una crisi nera. Il resto dei Paesi europei lo sa e sta reagendo con misure drammatiche. L’Italia sconta un margine di manovra, politica ed economica, assai più limitato. Per questo motivo non si può non temere l’uscita.

Sì, l’uscita dall’Unione europea è un’ipotesi più che plausibile. Lo insegna anche la storia della Grecia. La culla della civiltà si trovò incastrata in feroci negoziati con i suoi creditori: e a un certo punto dovette scegliere. Uscire o morire: e temendo di morire lo stesso, Atene restò a bordo. Oggi come allora la governance di Bruxelles non sembra in grado di pensare una risposta efficace alla depressione in arrivo. Il carrozzone di Paesi europei è ben lungi dal discutere politiche interventiste.

Da giorni diversi economisti stanno producendo fior fiori di articoli in cui chiedono investimenti, spesa, eurobond e altri impacchi sostanziosi per arginare il disastro. Dalle élite politiche, s’avverte un silenzio più sorprendente della calma delle steppe siberiane. I vertici delle istituzioni europee si abbandonano in dichiarazioni molto dolci. Ma al di là del vocabolario cosmetico, a Bruxelles non si sognano contrattacchi keynesiani. I Governi europei si guardano in cagnesco: nessuno fiata e nessuno chiede le riforme di cui l’Unione avrebbe disperato bisogno.

Tutti gli economisti del mondo hanno criticato i trattati europei. Il mandato della BCE è apertamente definito incompleto da molti. Tra questi c’è Joseph Stiglitz, ex consigliere economico di Bill Clinton e Premio Nobel dell’economia. Stiglitz è ben lungi dal definirsi socialista. Eppure non usa mezzi termini nei suoi scritti: che l’Eurotower si concentri soltanto sull’inflazione e non anche sulla piena occupazione e sulla stabilità dei mercati finanziari è semplicemente un controsenso. Tradotto in italiano corrente, l’accusa è aver disegnato una Banca centrale che ignora chi muore di fame e lascia le Nazioni preda degli spread. Per difendere chi? La stabilità dei prezzi, vero e proprio totem del diritto europeo, guinzaglio perfetto per frenare la crescita di stipendi e investimenti.

La costituzione economica dell’Unione europea è palesemente inadeguata ai tempi che corrono. È frutto di un pensiero economico nato negli anni Ottanta. Ma è un frutto andato a male con il crollo di Wall Street. E nell’accademia tutti – perfino Blanchard – se ne sono resi conto. Gli unici a difenderlo sono gli alfieri di chi ci ha guadagnato. Cioè gli industriali e i partiti degli industriali.

Dopo la Grande Recessione del 2007, più o meno tutto il mondo ha ripreso a crescere. L’Europa no. L’Eurozona ancor meno. Mentre in America l’amministrazione Obama inondava il mercato di enormi impacchi di denaro pubblico (e la campagna Sanders dimostra che non bastò), noi preferimmo l’austerità. Abbiamo peggiorato le vite di tutti i nostri concittadini, in tutto il Continente e di parecchio. Ma adesso rischiamo di pagarne le conseguenze.

La reazione di Inghilterra (e sotto molti aspetti anche di Francia e Germania) al coronavirus sta in questi termini. Meglio che muoiano migliaia di persone: altrimenti dovremmo fermare il Paese. A noi italiani sembra assurdo e crudele. La nostra reazione è quella più consona alla situazione. Tuttavia la scelta dei Governi stranieri è davvero chiara: compriamo ossigeno con un po’ di vite umane. Perché forse, dal prossimo giro d’austerity, potremmo comunque cavarcela.

L’Italia non ha affatto la stessa fortuna. Se praticassimo ancora impacchi di rigore fiscale, stavolta il Paese subirebbe una sofferenza molto più profonda del 2011-2012. Il tenore di vita è già basso e c’è poco spazio per recuperare margine di profitto comprimendo i salari. In più, i nostri clienti all’estero non se la passano meglio. Il che significa che il capitale italiano non può abbassare gli stipendi per abbassare i prezzi ed esportare. Giacché nessuno sta pensando di riformare l’Europa in senso sociale, keynesiano e solidale, tutto ciò significa solo una cosa: c’è un concreto rischio di far la fine della Grecia. Apparato industriale distrutto, disoccupazione galoppante, miseria nera.

La crisi di Atene ci lascia una lezione importante. L’unico modo che abbiamo per condurre un negoziato è non rinunciare all’unica carta che abbiamo. L’uscita. Che ha un costo inestimabile, di certo enorme. Ma che è l’unica nostra chance per condurre trattative convenienti. Quando Tsipras licenziò Varoufakis, la Troika impose ad Atene delle condizioni pesantissime. Adesso che si profila un’enorme difficoltà per il Governo italiano, Bruxelles accelera col MES: il meccanismo che stringe il cappio attorno al debitore che chiede aiuto. Si lavora per toglier fiato alle trattative.

È tristemente vero: l’unico modo per riformare un sistema bloccato è la crisi. L’Unione ha perso il suo primo appuntamento con la storia nel 2011. Ma in ballo c’era un Paese oggettivamente piccolo. Ora che è l’Italia a rischiare tutto, sarà impossibile tirare a campare. Siamo di fronte a un bivio. Unirci o dissolverci. L’hanno capito in tanti: sia i capitalisti italiani, sia Angela Merkel, che qualche parola ragionevole l’ha spesa in questi giorni. È triste temere che non l’abbia capito ampia parte della classe dirigente italiana. Ma se vogliamo salvare l’Europa, bisogna agire adesso.