MAY RESTA PREMIER: ULTIMO ATTO DEL DRAMMA BREXIT

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Marco Di Geronimo

Theresa May ha vinto la conta interna ai Conservatori. E così la leadership della premier inglese è blindata per un anno. Ma adesso la partita della Brexit si riscalda nuovamente. Non basta aver puntellato il numero 10 di Downing Street: l’erede di Cameron dovrà mantenere il posto in sella. Con una maggioranza comunque imbizzarrita.

È finito 200 a 117 il voto interno al gruppo parlamentare conservatore, impropriamente chiamato voto di sfiducia dalla disattenta stampa internazionale. Nei giorni scorsi la corrente blairiana del Labour aveva insistito perché Corbyn chiedesse all’intera Camera dei Comuni di pronunciarsi sul Governo: una vera e propria sfiducia. Qui si trattava di un istituto differente.

Quando è il singolo gruppo parlamentare di maggioranza a “sfiduciare” il premier, lo disarciona soltanto dalla leadership del partito. Noi diremmo che la Direzione nazionale ha sfiduciato il Segretario. Che però nel Regno Unito è anche, in automatico, Primo ministro (o Primo ministro ombra). Se questo scenario si fosse concretizzato ieri sera, i deputati conservatori avrebbero dovuto individuare un nuovo leader. Subito dopo (ma solo dopo), la May sarebbe andata dalla Regina per dimettersi da Prima ministra e raccomandare il suo successore alla guida dei Tories come nuovo premier.

Ma tutto ciò non è avvenuto. La minoranza interna dei conservatori è ormai spaventata da un accordo di Brexit che non riscuote l’accordo di nessuno. La linea della hard Brexit tenuta dal Governo di centrodestra sembra essersi totalmente arenata. Theresa May è riuscita a negoziare un deal tremendamente debole, che in buona sostanza vincola il Regno Unito all’Unione europea ma lo tiene fuori dalla stanza dei bottoni.

Il DUP, minuscolo partitino unionista nordirlandese di destra e alleato dei Conservatori, essenziale per mantenere la maggioranza ai Comuni, si è già dichiarato contrario. Assieme a questo, un buon pugno di deputati della May sembrano intenzionati a votare contro. E i dissidenti del Labour (nel sistema inglese è normale che i singoli parlamentari votino contro il partito, forti dei voti raccolti nel proprio collegio elettorale) non basterebbero a colmare l’emorragia di suffragi. Il May deal si arenerebbe bruscamente in aula.

L’aveva capito la Prima ministra, che ha preso tempo posticipando il voto. La pronuncia finale della Camera dei Comuni dovrà in ogni caso tenersi entro il 21 gennaio. E quando questo accordo sarà respinto, si riapriranno le danze. E sarà difficile capire in che modo la leader dei Conservatori potrà conservare il posto al vertice dell’esecutivo.

Concretizzare il fallimento sulla Brexit è l’interesse primario del Partito laburista. Non è un caso che Jeremy Corbyn si sia rifiutato di presentare la mozione di sfiducia. Il presidente del Labour infatti ha un messaggio molto chiaro per la popolazione: i laburisti sarebbero stati capaci di negoziare un accordo migliore, a difesa dei diritti dei lavoratori. Strategicamente importa proprio, alla segreteria corbyniana, veder cadere la May senza una definitiva sconfitta sul fronte Brexit.

Regalare altro tempo a Downing Street con una crisi di governo era l’ultima cosa da fare. Ma la minoranza conservatrice, al tempo stesso, sperava di incassare la vittoria nella guerra civile dei Tories con la conta di ieri sera. In modo da giocare con altre prospettive il successivo voto sull’accordo. Adesso però i dissidenti dei conservatori si sono messi in un vicolo cieco: con Theresa May rafforzata, il suo messaggio sarà ancora più forte. E in queste ore la Prima ministra non fa che ventilare lo spauracchio del «no deal» per estorcere l’appoggio all’accordo negoziato con Juncker.

Mentre questa situazione paradossale manda in sofferenza la sterlina (la moneta di Sua maestà ha un tasso di cambio simile alle montagne russe in questi giorni e ha sfondato i record negativi degli ultimi mesi), la commedia dell’assurdo si amplifica. In un dibattito parlamentare la May ha dichiarato che è disposta a riaprire le trattative con l’UE: affermazione rispedita subito al mittente da tutta Europa, al grido «l’accordo non si cambia». Se non si riuscisse a trovare la quadra diplomatica della questione, il Regno Unito dovrebbe tra l’altro fronteggiare due frontiere scottanti: quella con l’Irlanda e quella di Gibilterra con la Spagna. (Su quest’ultima aveva alzato la voce il premier spagnolo Pedro Sanchez nei giorni scorsi).

Il Post suggerisce che l’unica concessione che Bruxelles sarebbe disposta a concedere è un «documento di garanzia» che preveda la temporaneità del backstop. Cioè del periodo transitorio tra il momento in cui l’UK uscirà senza accordo e quello in cui il nuovo accordo entrerà in vigore. Anche se questa soluzione sembra dare il mal di pancia ad alcuni leader europei (che vorrebbero la Luna, cioè che in cambio la May garantisse i voti dei Comuni, che lei vede col binocolo per ora).

Per rendere l’idea di quanto la confusione regni sovrana Oltremanica, basti dire che la Corte di giustizia dell’Unione europea ha appoggiato la tesi sostenuta dal suo avvocato generale. Il quale aveva dichiarato che, a suo giudizio, in un qualunque momento il Regno Unito potrebbe revocare la sua notifica d’uscita. Londra potrebbe così “spegnere” l’articolo 50 del TUE, che impone il conto alla rovescia di due anni dall’avvenuta notifica d’uscita. Ma a questo punto la Brexit si trasformerebbe in una grande bolla di sapone. Con tutte le conseguenze politiche (disastrose) che questo comporterebbe per il centrodestra britannico.

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Sull' Autore

Direi di scrivere soltanto questo: "Potentino, classe 1997. Mi sono laureato in giurisprudenza a Pisa".

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