PIPPO CANCELLIERI
I RAGAZZI DI DON COLUCCI MI HANNO FORMATO PER COME SONO. LORO RAGAZZI DI UNA QUALITA’ CUI AMBISCO ANCORA OGGI, DALLE STORIE PERSONALI ALCUNE TERRIBILI E FINITE PEGGIO, ALTRI PROFONDAMENTE VISSUTE NELLA STRAODINARIETA’ DEL CORAGGIO DI ESSERE NORMALI.
PERCHE’ TUTTI DOVREMMO ESSERE NORMALI
PARTE SECONDA
Per la fine della messa di Natale il presepe era pronto.
A sinistra e tutto dietro le montagne verdi e marroni con le cime bianche, pastori contadini e pecore, poi cavalli e famigliole coi bambini che andavano alla messa di mezzanotte attraversando un ponticello su un torrentello con vera acqua pulita.
Al centro e a destra tutte le delizie della modernità, fabbriche con vero fumo, palazzine sporche e spente nei colori senza nessuno per le strade, città silenziosa e assente, indifferente a tutto, col torrentello che, diventato fiume a valle, aveva l’acqua ormai sporca, nera davvero e spumosa, e vicino alla chiesa stavolta enorme ma buia, un barbone ubriaco che con bottiglia in mano con l’altra chiedeva l’elemosina.
Poi se mettevi cinquanta lire nella buchetta delle offerte il cielo di un profondissimo blu, fatto con un lenzuolo colorato apposta, si illuminava tutto di mille stelline lasciando apparire una cometa che lampeggiava.
Un successone!
Tutti volevano parlare con noi due, toccarci coi complimenti, e chiedere come avevamo fatto a far diventare l’acqua da bianca a nera e con la schiuma e poi viceversa, e il cielo stellato con cometa.
E’ il Cristo? Il Cristo dov’era?
Era dentro di noi diceva Franco, dentro il cuore di ognuno di noi, bastava solo aprirgli la porta come lui aveva fatto con me col battistero.
Intanto lo stavo cercando con gli occhi fra la calca festosa che si scambiava gli auguri.
Lentamente si era defilato fino al posto più oscuro a lato fra i due enormi cedri dell’Atlante della piazzetta.
E mi guardava.
Il Cristo voleva entrare nel suo cuore ed egli lo ricacciava fuori ad ogni tentativo.
E io che lo avrei scoperto solo anni dopo.
Liberatomi completamente dalla gente, l’avevo raggiunto.
Lui: – L’hai fatto per loro?
Io: – Anche, ma pure per me. E tu?
- Per Franco e per te!
- Tu sei matto…
- Lo credi davvero?
- …..
Cazzo, cazzo, cazzo!
Cinque anni dopo.
L’HP-67 dopo ore di ronzii del trascinatore di schede magnetiche, e tremolanti lampeggii dei dodici digit a led rossi, aspettava stanco di essere spento.
Fuori era buio da un pezzo, pioveva, e il solito vento del vero dicembre potentino spazzolava a caso il vicolo la sotto.
Tutto era cambiato, le macchine sui marciapiedi, un condominio enorme di fronte e abitato da morti in piedi in attesa di formale notifica, e nessuno per strada.
Vico Addone, dal patriota sparato proditoriamente nel portone che non esisteva più, i bambini, i vecchi e le mamme con una “zevola” in testa quando pioveva ed io sotto l’arco del portone, appunto, ad osservarli; tutti sempre col sorriso in volto, poverissimi ma felici di essere li, vivi dentro e pure fuori con tutte le loro occupazioni. Rosetta, Franca e mia madre, che quando pulivano casa, cucivano il corredo davanti la porta, o facevano il bagnetto al figlio, cantavano.
Tutti invece ora la sotto scappavano incastrati nelle loro lattine a motore, venendo da sinistra e sparendo a destra verso il Comune.
Che capivo che sulla Basentana uno venendo da Taranto, e non volendo fermarsi a Potenza, non potesse che andare a Salerno, ma che qui nel vico Addone sulla cima della montagna sulla quale è appunto Potenza, venendo da San Rocco altro non puoi, se non sei arrivato, che andare di sotto dall’altra parte verso Porta Salsa.
Chi mai da un fianco del monte per raggiungere l’altro, salirebbe prima in cima invece di camminare in piano e su una curva di livello, facendo così ovviamente tanta inutile fatica?
Mistero, fra gli altri, di miliardi di vite che anche così ingannavano e ingannano il tempo in attesa del loro ritiro, per dirla alla Bade Runner.
Di colpo l’avevo visto, fermo nell’angolo più oscuro, illuminato per un attimo dai fari di una macchina in manovra. E mi guardava.
Corsi giù dalle scale di furia, e poi di traverso nel vicolo mentre ancora tentavo di infilarmi il giubbino.
Maledizione non c’era più.
Il Cico di Zagor avrebbe esclamato: “Sangre y muerte!”.
Io semplicemente vaff….
Lui: – Sono qui.
Io: – Dove?
– Prova a girarti.
Lui, che invece aveva girato nel frattempo dietro un furgone, rideva di gusto mentre guardava me che non lo avevo ancora bene individuato.
- Sei sempre la solita testa di cazzo.
- E tu il cazzone che ci casca sempre.
Continuava a piovere, col vento a tirare più forte e noi dopo l’abbraccio, a parlare di donne, di pesca, di moto e di amici comuni come di Franco, come due scemi anzi due matti.
Poi gli avevo chiesto:
- A quando la Laurea?
Volevo tagliarmi la lingua.
E per riparare toppando ancora di più:
– Dai spicciati, ci stanno aspettando. Assieme faremo i ponti più arditi, le scuole e le case più belle e così questo posto di merda diventerà il migliore da vivere. E i soldi; sai quanti soldi faremo? Guarda quanti ne ho, ne vuoi? Dai prendili….
Lui: – Ora devo andare.
Io: – Dove!? Cazzo!
Lui: – ….
Io: Io ti aspetterò sempre! Hai capito?
Un mese dopo la stessa scena.
Non avevo mai smesso di guardare li sotto la sera.
Le giornate un poco più lunghe e la pioggia solo poco più grossa col vento più caldo.
….
Idem.
….
Chissà perché penso ancora oggi che se quella maledetta e pure bellissima primavera fosse arrivata solo una settimana prima, non l’avrebbe fatto.
Chi cazzo avrei aspettato adesso?
Tutto quanto mi sarebbe successo dopo e tutte le azioni che avrei in seguito compiuto dal giorno del suo gesto ne sarebbero state in qualche modo diretta conseguenza.
Vaffanculo, anche oggi mentre finisco il pezzo alla tastiera del mio i3_IV.