POTENZA, FROTTE DI NOMIGNOLI E TOPONOMASTICA CONTADINA

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LUCIO TUFANO

L’esigenza di paragone tra gli anonimi, ricorrendo al paradosso, all’intuizione, alla scoperta, il raffronto con il modello rapportato, un processo ricorrente, le anagrafi non scritte dei personaggi, dei caratteri ironici della città e della campagna, elencate, raddoppiate triplicate. Aneddoti, simboli, allegorie hanno riferimento nel soprannome o nel nomignolo, a mo’ di allusione scherzosa e qualità o difetto. E le contrade non sfuggono ad una tale toponomastica, a questa geografia convenzionale, consuetudine allusiva, fotografia scattata nella fiaba inedita, nella magia della memoria localizzata: Cacabotte, Stumpagne, Faloppa, Porchereccia, Porco Morto …

L’eresia dei soprannomi che provocano lo scisma tra l’inganno e il religioso.

Il mistico straripa nel satanico, nella bestemmia, nel beffardo senso dell’humour.

È l’anagrafe occulta. L’anagrafe delle anime morte, l’appello per l’udienza suprema, l’accusa o il premio, l’invettiva o il trionfo, la constatazione generale del pregio e del difetto.

Antropologia dei personaggi, dei soprannomi, dei caratteri somatici. Esemplari di razze diverse che coabitano nello stesso universo ma che rappresentano latitudini opposte e lontane: u cinese, Ciùenlai, u negùs, u rrùss, u tetèsck, Gengis Kàn.

Zi Arcangelo Zaàglia possiede tre orologi, un Omega, un Longines e uno Zenit come cartucce da caccia nel panciotto. Scende alla Stazione Inferiore per regolarli con quello della Ferrovia: Sono in punto le dieci! Risponde con nasale e cattedratica voce a chi gli domanda l’ora. E a chi ne dubita aggiunge: «ti devi sottomettere, è un Longines!». Zì Arcangelo parte per l’Africa proprio per regolare l’ora precisa dello Zenit all’Equatore.

Patratern, monumento ai titani della terra, ai patriarchi delle campagne. Nome che riassume tutte le sofferenze e le avversità delle annate, le cicliche sventure e calamità di una terra a cui l’uomo era legato da un tutt’uno, unico corpo, la sua resistenza biblica alla fatica.

Tronc-tronc, antico fauno della Pallareta, il mulattiere nero di bosco e duro di quercia. Al forno di Largo Pisacane giunge ogni sera con il fazzoletto di funghi e le salme di fascine.

Bestemmia per un piatto di lenticchie. Soffia il chi t’e’ mmuort sulla minestra di aglio, cicorie e cirasedde coi larghi polmoni di borea e la condisce con il respiro acre delle carbonaie. La manìa di tentare il suicidio non è dei poveri, ma come la cleptomania è una velleità dei nobili, così il suicidio è una idea fissa di Sangue Blu. Prima di gettarsi dal muraglione di piazza del Sedile, fa cadere giù il bastone. Dissero che il bastone si era spezzato e lui non si era fatto alcun male. Il mulino ad alta macinazione di Calvi e Benvignati è in funzione. Il fragore è continuo, e nessuno si accorge che, per la terza volta lasciatosi cadere, è finalmente morto.

Silvius Provolonis. Il suo nome deriva dall’unico sogno che lo alletta, una bella fetta di provolone con il pane. Quello il suo mondo, il suo traguardo, la sua missione. Porta la riga al centro della testa e non perde mai l’occasione di passare in rivista balilla e avanguardisti. Si affretta, prima che giunga il prefetto, e fa la sua passeggiata davanti ai manipoli gia schierati allo squillo di tromba.

Miseria, figura rappresentativa del sottoproletario dei trasporti della stazione e del mercato; assai trascurabile esponente del facchinaggio non ancora regolato da norme di sicurezza sociale. La sua faccia, la sua persona, coincidono alla perfezione con il concetto e la immagine stessa della più squallida povertà.

Nun ghè nnient p’mmi! Albero stecchito, il mendìco aggressivo viene dalle contrade dell’Arioso, da Pignola. Mantello a ruota sotto i balconi, il sacco sulla spalla: nun ghè nnient p’mmi! I bimbi cessano di piangere. Il benessere delle famiglie, la serena pace delle case teme l’incubo fiscale, l’anima dannata del brigante. La gente lo sente arrivare e le mamme hanno paura di chiamare le guardie.

Insomma, una moltitudine di suoni, di chiamate, massa di anime autentiche nel comune impegno di distinguersi, di strafare, di creare attorno a sé il mito eroico popolare.

Pagliacci in divisa di stracci arrivano, indugiano, si scherniscono, nascondono le facce con le mani o con le coppole alla luce abbagliante dei flash. Qualcuno rievoca le imprese, la gloria contadina e artigiana, le prodezze, il torneo, il primato, la gara nel mangiare come spaccafrittata, i fratelli bocconi, pappòne, bozòne, strascinare, panzariedd, rascacàscia, cascemodd, cascavadd, favidd e favodd. Schiff. Strana trasposizione dal paese alla città. Sono gli ex contadini adibiti ai lavori di scaricamento dei sacchi. Emblematiche figure della tregua alla fame. Si accartocciano agli angoli delle sale di terza classe. Portano sulle spalle i palazzi della città. Spiriti liberi, eroi irrazionali della irregolarità, assurdi esponenti di una realtà sociale misera e senza domani. Rubbagaddì, Bruciapagliara, Ninc Nanc, sono composizioni significative costruite sui misfatti, sulla criminale attività di vivere in disperata povertà.

Avrebbero potuto attingervi Andersen e i fratelli Grimm, Fedro, Esopo e La Fontaine, i favolisti di epoche remote, in questa vasta letteratura dei soprannomi.

Pezzanera è invece una sorta di bandiera corsara che sventola sul mare dei vicoli.

Bancanterra è l’emblematica espressione di un crack perpetuo. Paccalino, Frifrì, Pascalott, Frufrù sono vezzeggiativi. Accrescitivi invece Buttone e Musciarone. Diminuitivi: Bubù, Bebè, Gegè, Fefè, vezzi della napoletanità importata da noi. Tacca Tacca,Turr Turr, Scaf Bù, Quaqcquarà, Gnagnà, Treppieri, Tremani, Trerote, Trentacarrini, Treparanze: metrica dei nomi e dei simboli, analogie rafforzate dal solfeggio delle sillabe, dei bisillabi.

Scarrozza, Cascavadd, Chiodd Chiodd, Triminiedd, albero genealogico, araldica della terra, di famiglie grandi come continenti, nazioni di figli che abitano il monte e la pianura.

Pisciamort è sinonimo di un buffo rito tra il funere mersit buffo e la profanazione o l’irridere la morte come ironia della precarietà umana.

Strazzacuèrta (strazzacoperta) è la secessione per mancanza di riscaldamento, la guerra tra coniugi per coprirsi con un’insufficiente coperta. Strazzàre e strazzarièdd sono gli epigoni della competizione per il possesso degli stracci.

Sciacquariedd ha la contrazione rapida, involontaria, abituale, del collo e del piede per un ballo infernale che lo rende litigioso e attacca brighe.

Scioglie col pianto le brighe dolorose.

Ogni qualvolta beve Zì Accale diventa filosofo e si accinge a lunghe riflessioni. Inizia il suo conversare con la perplessità amletica del chi nasce prima, se l’uovo o la gallina?

Cuglietta era stato immerso nel sangue delle lucertole, in quel Drago Verde del fiume, ove regnano i botne meno profondi e più limpidi. Una sola parte ne era rimasta fuori, l’orecchio, e quello era il punto più vulnerabile. Lo si notava temerario e sicuro in tutte le sue gesta, giacché consapevole della sua parziale incolumità. Era il primo a tuffarsi nell’oscura insidia dell’acqua, nei vortici del fiume; un satiro delle giunchiglie, inatterrabile per le troppe “malizie”, i trucchi che opponeva negli scontri tra compagni, in quelle scaramucce di lotta libera, e si adoperava dallo sgambetto al pugno nel ventre. Quando proclamava: «Me la fai ammi?». Nessuno osava provarci, ma gli occhietti vispi e l’astuzia non erano solo l’esito di quanto la sua mente sveglia andasse approntando, ma impressa nella sua faccia sorniona ed impavida, nei suoi lineamenti, era la curiosità. Giocava, da scaltro, a fische e a turturedde, a nuzzule e a “soldi”, commerciava in albi dei fumetti e in figurine della Perugina e dei calciatori.

Lo chiamavano di nome cuglietta e gli si leggeva negli occhi una lunga intricata storia di trabocchetti e di paure, di stozze di pane ancora caldo e da ingoiare in pochi istanti correndo.

Don Alfredo, montagne di piedi e bombetta rigida di feltro nero, volto greve e altero, espressione suprema e sofferta. Aldilà delle distanze da percorrere, il peso dei passi dai piedi gonfi di cipolle, di acido urico, di piombo pieno e la mobilità degli occhi e del baffetto lo inchiodano a mo’ di pizzardone al cospetto del traffico.

Falùcce Sarachedda è componente di una razza di scheletrici rappresentanti del sottoproletariato dei vicoli (bocca semiaperta al riso inconsapevole).

La folla lo coinvolge nelle follie del ‘pallone’. Sarachedda è sempre raffreddato quando s’inzuppa di pioggia per partecipare, al freddo e all’aperto, allo svolgersi delle partite. La gente crudelmente ha accentuato questo suo modo di essere parte indissolubile della squadra locale, provocando la sua esibitoria. Fa ridere il vitellonismo della città. Grida, corre, sghignazza.

Straccio sbattuto, sdrucito e malconcio, si riscalda avvinghiandosi allo sfiatatoio del forno. Lui Giappone, e qualche altro riescono a dormire lì, attaccati alla grata, fruendo del tepore, gustando l’odore e respirando gli ossidi contenuti nei vapori, come tutto ciò che dà torpore e si assopiscono sognando il pane fragrante, le scodelle di fagioli con il sedano. Le sue scarpe a finestre si inzuppano come chiatte e i piedi guazzano nelle pozze. L’alluce, rosso di rabbia, vi fa capolino.

Ad ogni partita butta sempre il suo cencio di coppola e urla,correndo per tutto il tratto della rete sovrastata dalle tribune ad inveire contro l’arbitro.

 

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Sull' Autore

LUCIO TUFANO: BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE “Per il centenario di Potenza capoluogo (1806-2006)” – Edizioni Spartaco 2008. S. Maria C. V. (Ce). Lucio Tufano, “Dal regale teatro di campagna”. Edit. Baratto Libri. Roma 1987. Lucio Tufano, “Le dissolute ragnatele del sapore”, art. da “Il Quotidiano”. Lucio Tufano, “Carnevale, Carnevalone e Carnevalicchio”, art. da “Il Quotidiano”. Lucio Tufano, “I segnalatori. I poteri della paura”. AA. VV., Calice Editore; “La forza della tradizione”, art. da “La Nuova Basilicata” del 27.5.199; “A spasso per il tempo”, art. da “La Nuova Basilicata” del 29.5.1999; “Speciale sfilata dei Turchi (a cura di), art. da “Città domani” del 27.5.1990; “Potenza come un bazar” art. da “La Nuova Basilicata” del 26.5.2000; “Ai turchi serve marketing” art. da “La Nuova Basilicata” del 1.6.2000; “Gli spots ricchi e quelli poveri della civiltà artigiana”, art. da “Controsenso” del 10 giugno 2008; “I brevettari”, art. da Il Quotidiano di Basilicata; “Sarachedda e l’epopea degli stracci”, art. da “La Gazzetta del Mezzogiorno” del 20.2.1996; “La ribalta dei vicoli e dei sottani”, art. da “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Lucio Tufano, "Il Kanapone" – Calice editore, Rionero in Vulture. Lucio Tufano "Lo Sconfittoriale" – Calice editore, Rionero in Vulture.

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