RICCARDO ACHILLI

 

 

Per verificare le condizioni per molti versi critiche del sistema della ricerca e dell’innovazione nel nostro Mezzogiorno, è sufficiente dare uno sguardo ai dati. La spesa per R&S “intra muros” rappresenta appena l’1% del PIL meridionale, a fronte dell’1,6% nazionale e di una media del 2,2% per l’area-euro. Soltanto la Campania, che può vantare, attorno al polo di Napoli, un tessuto che si avvicina maggiormente al concetto di “sistema innovativo territoriale”, supera l’1% di tale rapporto, mentre la Calabria evidenzia un valore di appena lo 0,6%.

A difettare non è tanto la componente pubblica di tale spesa, che si attesta sullo 0,5-0,6% del PIL, in linea con la media nazionale e non lontano dal dato europeo (0,7%). Il problema risiede nella componente privata, imprenditoriale, che spende per R&S intra muros solo lo 0,3% del PIL, circa un terzo del dato medio nazionale e molto lontano dall’1,2% europeo.

Ciò significa, in sostanza, che gli investimenti pubblici in ricerca e sviluppo fatti a Sud non riescono a trasferire un impulso al comparto privato, sia perché esso ha un modello di specializzazione produttiva eccessivamente tradizionale, dove le attività a medio-alta tecnologia sono rare, sia perché la spesa in ricerca pubblica non è indirizzata a sufficienza verso settori in grado di produrre risultati utili per il settore privato. Infine, manca proprio il “link” fra ricerca pubblica e privata. Gli esperimenti condotti in passato, dai parchi scientifici e tecnologici, ai centri di competenza tecnologica, agli incubatori, non si sono rivelati in grado di trasferire al mercato prodotti di ricerca vendibili. Sia per l’approccio burocratico di tali strutture, sia per il fatto che spesso mascheravano progetti di ricerca accademica sotto un mantello di ricerca applicata e precompetitiva fasullo, di fatto non c’è capacità di creare quelle relazioni continue di conoscenza, esplicita e tacita, che definiscono un sistema innovativo regionale nel senso più proprio. Né, peraltro, le modifiche al sistema di finanziamento delle Università, che aprono maggiormente al contributo dei privati, hanno sortito effetti particolari.

Infatti, da un lato è carente la grande impresa, quella che ha le risorse economiche e la robustezza patrimoniale per lavorare con l’Università e la ricerca pubblica per sviluppare progetti di lungo periodo, che partano dalla fase di ricerca di base per arrivare fino a quella dello sviluppo precompetitivo: le imprese con almeno 250 dipendenti, nel Mezzogiorno, sono appena lo 0,04% del totale. Dall’altro lato, la PMI ad alto contenuto di conoscenza fatica moltissimo a radicarsi: pur in presenza di un tasso di natalità di imprese high tech superiore alla media nazionale, ed indicativa di una voglia di fare impresa, anche innovativa, diffusa (10,4%, contro il 9,4% italiano) le imprese ad alta conoscenza nate nel Mezzogiorno hanno una capacità di sopravvivenza a tre anni dalla nascita relativamente scarsa: ne sopravvive solo il 46%, a fronte del 52% italiano. Mercato locale asfittico, bassa dotazione di infrastrutture per raggiungere i mercati extra locali, offerta di servizi di modesta qualità, minore capacità di sostegno del sistema bancario, se non vere e proprie patologie come il radicamento di organizzazioni criminali, concorrono a rendere molto precaria la sopravvivenza delle iniziative lanciate.

Di conseguenza, ricerca pubblica ed imprenditorialità privata al Sud rimangono mondi separati e inconciliabili, nonostante il fatto che, grazie alla maggior spesa dei fondi strutturali per la realizzazione di infrastrutture e piattaforme di ricerca condivisa, la quota di imprese meridionali che hanno potuto avvalersi di infrastrutture e servizi di ricerca da altri soggetti siano il 30,5% del totale, a fronte del 20% nel Centro Nord. Ma la qualità della ricerca, esprimibile attraverso l’intensità di brevettazione, mostra un gap negativo per il Meridione: i brevetti depositati presso l’Epo sono appena 8,6 per milione di abitanti, contro gli 85,5 per milione di abitanti del Centro Nord. Evidentemente, la maggiore partecipazione ad infrastrutture e piattaforme di ricerca cofinanziate dai fondi strutturali non si converte in prodotti di ricerca più robusti e brevettabili, per cui la collaborazione fra ricerca pubblica e privata finisce per essere fittizia, spesso solo formale e finalizzata a catturare fondi di progetti europei (che richiedono la presenza di cordate miste pubblico/private per accedervi) che non si traducono in risultati scientifico-tecnologici apprezzabili.

E nemmeno gli incentivi di Industria 4.0 hanno grandi possibilità di produrre effetti favorevoli, se applicati ad un tessuto produttivo debole, nel quale la specializzazione nei settori produttivi ad alta tecnologia è, se misurata in termini di addetti, pari ad 1,9, a fronte del 3,9 del Centro Nord. Non c’è proprio tessuto produttivo verso cui rivolgere gli incentivi.

Il problema allora diventa quello di concentrare grandi dosi di investimento sia sull’ambiente locale (infrastrutture, servizi reali, alta formazione di ingegneri e tecnici, ecc.) sia nel creare una domanda locale di innovazione, che nel Mezzogiorno non può che essere pubblica, ad esempio tramite i meccanismi del precommercial public procurement previsti dall’attuale programmazione dei fondi SIE, sia selezionando meglio i finanziamenti europei, in modo da mirare su progetti di ricerca aventi un reale contenuto di sviluppo precompetitivo e ricerca industriale (cioè mediante una migliore capacità di valutazione degli stessi). E poi facilitando, anche in termini di snellimento burocratico e di incentivazione fiscale, oltre che di accompagnamento imprenditoriale, le start up ad alta tecnologia, specie se derivanti da spin off accademici. Da questo punto di vista specifico, la cultura del sistema creditizio e finanziario meridionale deve evolvere dai campi protetti della garanzia reale verso quelli più rischiosi del finanziamento del progetto, anche tramite la compartecipazione al capitale sociale.