Napoli, cordone di ferro che domina da sempre, esporta gli ambulanti di ogni porto. Spaccanapoli e Toledo giungono fino al Vicaddone. Slitta di treni che fischiano nel ventre buio dei monti, la ferrovia ci lega alle marine di Salerno, di Mergellina. Napoli città di margherite. Ve ne sono sui balconi, all’occhiello delle giacche, nelle mani delle signore, sui pali del municipio. I pizzaioli fanno la pizza Margherita, i tabaccai vendono sigari Margherita. Dalla stazione si allunga una fila di pennoni e di bandiere. Ufficiali, reggimenti, carrozze di gala, plotoni di carabinieri, di lancieri, corazzieri. Al passaggio dei reali, un ondeggiare di popolo e di fazzoletti. Un uomo, male in arnese, sottile di persona, brutto di volto, feroce negli occhi, in mano un coltello avvolto in un panno rosso: morte ai re, viva la repubblica universale, viva Orsini, salta sul predellino della carrozza e vibra colpi. Giovanni Passannante, cuoco lucano di Salvia, provincia di Potenza. L’offesa di lesa maestà rimbalza nei fili del telegrafo, nelle prime pagine dei quotidiani, giunge al paese dell’orribile cuoco. Il consiglio comunale muta l’umile e aromatico nome di Salvia in quello di Savoia. Nessun dubbio turbi l’animo del re sulla scontata fedeltà del comune! Potenza invia telegrammi di scuse e di solidarietà. Giovanni Parella, sindaco di Salvia, giacca nera acquistata con soldi del Comune, si precipita dal re in persona. Da tutta la Basilicata: ripetuti ossequi alla casa Savoia. Il processo si liquida nello spazio di due giorni. Non fu infermità quella di Passannante, perciò merita la pena capitale. Il re “buono”, invece, catena di diciotto chili al piede e lavori forzati, lo chiude alla madre e al mondo nelle celle di Portoferraio sotto il livello del mare. I barcaioli di notte sentono i lamenti dello sguattero infame, del miserabile sud, di quella parte d’Italia che ripara oltre oceano; molti altri Passannante migrano, a pelo d’acqua, voli spauriti di gabbiani. Nel 1881, un dispaccio di Stato preavverte della venuta dei sovrani nei giorni 25, 26 e 27 gennaio. Epoca fatidica per le vicende che si dipartono da quelle freddissime giornate. La città si appresta ad un doveroso sentimento di riverenza e di ospitalità, a due anni dal gesto criminoso di Passannante. Si alza il sipario su di una città assediata dai contadini, presidiata dalle giberne e dai fucili, dominata da una borghesia agraria, trasformista ed opportunista, che aveva fruito dei rivolgimenti politici del 1860. Al popolo che, al di là dei volti familiari dei santi locali, non conosceva quelli del re e della regina, si offre ora la possanza dello sguardo, la regalità dei gesti, la solennità della divisa, la autorità dei baffi, la dignità del volto di un re venuto, con la ferrovia, a percorrere un tratto dello Ionio e del Basento. I chiarissimi scrittori dell’epoca, gli storici, raccontano delle estenuanti fatiche del viaggio, dell’alato carro che sbuffa, vola, saetta e lo spazio divora; discettano di armonie celesti che regolano la concordia tra principe e popolo, fondamento di vita civile: 0 popolo o re date il governo agli ottimi! Nelle pagine dei letterati, le fronde di querce percosse dal vento, le schiene dei monti e le sponde dei fiumi risvegliano il fremito di un popolo in festa per il suo re che sceglie i suoi fiori, le ginestre Savoiarde, che gli intrecciano corone e serti da re, che danno colore alle spalline di corte. Non tutto si esaurisce in quelle note, che diventano più sostanziose quando si dà mano alla pubblica cassa per inaugurare il nuovo teatro. La sola Provincia spende 215.739 lire. La Prefettura presta al Comune, per poi rivalersene, denaro per le luci, le strade, le opere pubbliche, non ancora portate a compimento. Si può dire che i giardini, disseminati lungo la collina, vengono piantati in una sola notte per la regina, data la frettolosa solerzia del conte Contin di Castelseprio. Anche le società di mutuo soccorso accolgono con affetto la reale famiglia, avendo coscienza di bene rispondere ai desideri della intera provincia. Consiglieri, sindaci, deputati, bande musicali, battaglioni di fanteria si riversano nella città, una schiera numerosa di guardie forestali, di pubblica sicurezza, che, travestite, si mimetizzano in locande e cantine ad identificare un Passannante in ogni persona. Da Melfi, Rionero, Avigliano, Tito, Pignola, S. Mauro Forte, Accettura, Lauria, Vaglio, nella tormenta di neve e di pioggia, si assiepano sulla via i faccendieri dei paesi. Cocchieri dalle lunghe livree, carrozze di corte. I domestici apprestano la mensa dei sovrani. Dai balconi. dalle finestre, dalle terrazze, a ridosso della collina, si allungano i colli e si aguzzano gli occhi pronti gli evviva! Le guardie ed il clero si intendono la visuale del sovrano, principe e Re stringono la mano a monsignor Carvello, la regina gli bacia la mano. Al popolo non è permesso tocca, palpare, come si usa fare nelle processioni di S. Gerardo; il re è intoccabile, ha un potere occulto che non ammette l’infima e minuta dimensione umana. Tre volte si affaccia il re al balcone a riscuotere ondate di applausi e di gelo e il suono impetuoso delle dodici bande che si contendono il primato delle marce e della attenzione. Ma i sovrani fanno colazione e un lembo di tendine si sposta di tanto in tanto per trastullare l’aspettativa della folla. Sin dal mattino le vie sono affollate rendendo difficile il passo. I petti rigonfi e ciondolanti, le scarpe verniciate, passano e ripassano in via Pretoria. i calzoni rimboccati, magistrati, sindaci, autorità in abito di rito, a contendersi l’ammissione al ricevimento. I libri di autore, fiori e ricami, oggetti d’arte e di manifatture si allineano sulle tavole imbandite; Il martirologio lucano circola tra i commensali, fra brindisi e posate. La sera del 26 gennaio l’aristocrazia lucana inaugura per i suoi fasti il teatro Francesco Stabile. È di scena La Traviata di Verdi, rappresentata una compagnia del S. Carlo di Napoli fatta venire apposta per la circostanza. I prezzi dei biglietti sono esosi, ma una folla ingente s’intruppa nei palchetti e nella platea. Lo scintillìo di mille fiammelle elettriche, accese per l’occasione, fa tutt’uno con il vanto luccicante dei brillanti, dei nastri colorati di una folla di commendatori, di cavalieri, di signore e signori. I ministri Cairoli, Villa e Miceli stanno in piedi sullo sfondo del palco reale, piccini alla vista ed al giudizio del popolo. Il re giunge a teatro a saltelli, attraversando il tratto che lo separa dalla Prefettura su apposite tavole; la regina vi giunge in carrozza, la pioggia ha reso il terreno della piazza viscido e fangoso. Si ignora se il re, durante la rappresentazione, abbia gustato un po’ dell’appetitoso dolciume, vivamente colorato, preparato dal caffettiere, presidente di una società operaia, oppure se si sia accinto a rosicchiare il grosso biscotto zuccherato di Avigliano, offertogli da altra delegazione. Il mattino seguente il re lascia Potenza, accompagnato da un raggio di sole e trascinandosi dietro un nugolo di soldati e di sbirri che, nei giorni di sua permanenza, avevano riempito di sospetti e di prevenzione ogni angolo della città. Si dice che il re prima di partire avesse chiesto notizie della madre di Passannante.