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Marco Di Geronimo
Forse Donald Trump perderà le elezioni. È questa la conclusione alla quale stanno arrivando gli analisti. Il precedente del 2016 è scivoloso, ma il vantaggio di Biden è ampio e ben distribuito. Il Presidente arranca in tutti i dibattiti, non ne azzecca una nella stanza dei bottoni e appare inaffidabile. All’orizzonta si profila una sconfitta clamorosa per i repubblicani, che rischiano di perdere anche il Congresso. Potrebbe essere la fine di un ciclo. E per tutto l’Occidente.
Nell’ultimo lustro abbiamo assistito a una polarizzazione impressionante dello scenario politico. A destra si è consumata un’esasperazione inedita dei contenuti nazionalisti e sciovinisti, che ha travolto i partiti più grandi e li ha costretti a scoprirsi reazionari. A sinistra sono rinati esperimenti socialisti in tutto l’Occidente, capaci di mietere milioni di voti tra la sorpresa di tutti. Anche il centro si è radicalizzato: i falchi dell’austerity, delle privatizzazioni e della liquidità hanno scorrazzato iperattivi in tutto lo scenario europeo.
È stato un quinquennio impegnativo. Il COVID-19 ha dato la spallata al periodo più effervescente degli ultimi decenni. Non è un caso che in tutti i dibattiti culturali e d’approfondimenti c’è sempre qualcuno che fa un intervento in cui prende in giro Fukuyama. Il povero bullizzato è un signore che, alla caduta del Muro di Berlino, aveva pronosticato la fine della Storia. A quanto pare la Storia non è finita, sogghignano in molti. C’è poco da ridere, perché la Storia di oggi è una Storia corrosa da grandi problemi (il riscaldamento globale, la disuguaglianza, la fragilità) e priva di soluzioni. Una Storia che spinge i popoli ad affidarsi a uno sbocco qualunque.
La profonda frattura tra il centro e la sinistra ha gettato l’Occidente nelle braccia della destra. Si tratta ovviamente di una ricostruzione semplicistica. Senz’altro sbagliata sul piano meramente governativo: solo Inghilterra e Stati Uniti sono in mano a Governi sovranisti (oggi si dice così). Ma è vero che tutti i centrodestra occidentali si sono sbilanciati verso posizioni reazionarie. Lo sono quelli di Francia e Italia, monopolizzati da Le Pen Oltralpe e dalla premiata ditta Salvini-Meloni nel Belpaese. Lo sono (un po’ meno) quelli di Spagna e Germania, nei quali i tradizionali partiti popolari sentono il fiato sul collo di nuovi e inaspettati rivali protofascisti (Vox e AfD).
Come rispondere a questo sbilanciamento di sistema? La domanda a cui i sovranisti rispondono è una domanda seria: è una richiesta democratica. Tutti gli studi e gli interventi più centrati sul tema lo confermano: in particolare è Carlo Galli a immaginare il sovranismo come atto di fede di una società che tenta di difendersi dal capitalismo (Galli parla di ordoliberismo tedesco: si riferisce al fenomeno europeo della destra euroscettica). Le masse sono state intrappolate da un modello economico che le opprime e provano a scrollarselo di dosso.
Il punto è che per uscire da questa crisi serve una maggiore democrazia. Proprio quel sistema che JP Morgan suggerì di rottamare, perché percepito d’ostacolo alle necessità dei mercati. «I sistemi politici costituzionali del Sud presentano queste caratteristiche», scriveva impunita: «tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori […] licenza di protestare se sono proposte modifiche sgradite allo status quo. La crisi ha illustrato a quali conseguenze portino queste caratteristiche». La chiosa era ideologica, la premessa era ineccepibile. La protezione sociale fu una scelta comune a tutti i costituenti antifascisti d’Europa: lo fu perché proteggere le masse dal disastro economico era uno strumento indispensabile a prevenire crisi politiche e sociali. Lo è ancora. Le masse chiedono questo, ma non lo sanno: e si affidano ai sovranisti.
Per fortuna oggi non c’è un rischio fascismo all’orizzonte. C’è una pericolosa legittimazione di metodi, retoriche e linguaggi violenti e antidemocratici. Ma quei partiti sono semplicemente un can che abbaia senza offrire vere ricette alternative al famigerato mainstream. O meglio: al mainstream di ieri. La sfida ecologica e il collasso economico post-COVID hanno spinto il centro a sinistra. In tutto l’Occidente si sta aprendo un grande cantiere di riflessione nei centrosinistra.
La necessità di rispondere alle disuguaglianze e all’inquinamento impone una forte reazione pubblica. Stiamo parlando di politiche industriali ed economiche che plasmeranno il mondo di domani. Nessuno più crede all’austerity, neanche quella parte progressista dell’élite economica che l’aveva contrabbandata a sinistra. L’importanza di un nuovo dialogo tra liberali e socialisti appare evidente in tutte le principali sale di riflessione della cultura politica (Pandora Rivista ha dedicato un dibattito amplissimo sul tema).
L’intelligencija progressista prepara il campo teorico di una nuova alleanza riformista da consegnare all’Occidente per far fronte a questo periodo storico cruciale. Nel mondo politico l’aritmetica elettorale impone coalizioni coese tra centro e sinistra per vincere le elezioni e realizzare programmi ambiziosi (tra le quali quella tra PD e M5S rappresenta soltanto il caso più clamoroso e particolare ma non certo un inedito – cfr. PSOE-Podemos). Certo, l’altro lato della barricata ha fiutato il pericolo e rinnova l’attacco con più violenza: ne sono un esempio i profluvi agguerriti di Carlo Bonomi.
Ma ormai il processo è avviato. Il nuovo centrodestra ha avuto cinque anni per mietere successi e presentare frutti. Non c’è riuscito e ora ne paga le conseguenze. All’orizzonte si affaccia un’opportunità storica, da non perdere: la realizzazione di un’alternativa molto avanzata rispetto allo status quo. Della quale l’elezione di Joe Biden, non a caso spostatosi molto verso sinistra negli ultimi mesi, rappresenterebbe soltanto il primo passo.