TOTORE SUONAVA LA MANDOLA

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di GERARDO ACIERNO
Si sentivano il mugghiare di un randagio e la ferocia del vento del nord che dalla faggeta di San Michele scendeva ad accanirsi sulla manciata di pietre seminate sopra una collina spoglia e scura a formare il paese di Torretta a poca distanza dalla città di Potenza. A quell’ora della notte la gente del paese dormiva nel profondo. Una notte di metà dicembre del 1868. Un graffiante nevischio impazzava tra le assi annerite e le quattro tegole sbrecciate della soffitta qui chiamata tumbiatë di un’antica costruzione appartenuta a don Angelo Maria Bruno, cappellano militare. Quella che soltanto lontanamente somigliava a una casa era tenuta in fitto da Giovanni Milone, contadino e boscaiolo, sposato con Arcangiola Caputo, padre di cinque figli, tre maschi e due femmine, proprietario di un asino e di un maiale, bracciante nei terreni della piana dove coltivava ortaggi e altri prodotti un po’per sé e per la sua famiglia, molto di più per i padroni. Intabarrato dentro un nero cappotto a ruota, sotto un cappellaccio scuro in discreto stato e con gli stivaloni abbastanza lucidi che usava indossare soltanto a Natale, Pasqua e Capodanno, il Milone era nella stalla a preparare l’asino. La bestia dopo aver mangiato il giusto doveva portarlo a Potenza. Era stato faticoso tirarsi giù dal letto nel pieno della notte ma per Giovanni Milone finalmente era giunto il giorno  tanto atteso. Aveva mangiato due spicchi di pecorino con un pezzo di pane nero, una cipolla nell’olio, assaggiato un goccio di vino, schiacciato tre noci ed era sceso nella stalla, un seminterrato, dove oltre ad ospitare gli animali si accumulava la spazzatura di casa che tranquillamente filtrava dalle tavole consumate e gobbe del piano di sopra, là dove erano sistemati, intorno alla fucagnë col cacciafumë che non tirava, una grande tavola, quattro sedie impagliate, la fazzatora e i letti della famiglia. Senza dire una parola Giovanni aveva salutato con lo sguardo sua moglie, aveva preso la sacchetta che la donna con una certa cura fin dalla sera precedente gli aveva preparato ed era sceso giù. Quel presente doveva consegnarlo al suo compare di cresima, Luigi Pepe, che abitava in città e che faceva il guardaporta alla Prefettura di Potenza. Il Pepe aveva finalmente ottenuto il permesso di accompagnare Milone nell’ufficio di uno scrivano suo amico per farsi scrivere una lettera da indirizzare al Prefetto in quanto il buon compare Giovanni non aveva più notizie di suo figlio Salvatore, da tutti chiamato Totore, suonatore ambulante di mandola, affidato a uno strano personaggio del posto, un certo Mureno entrambi partiti per l’America tre anni prima. Milone prima di montare sull’asino guardò il cielo: era comparsa la luna e la tramontana spingeva i nuvoloni verso i monti del salernitano. Forse il viaggio per Potenza – pensò, fiducioso il bracciante – sarebbe stato un po’ più facile da affrontare al chiaro di luna. Nel silenzio si sentiva il rumore dell’acqua che sgorgava dalle pietre della Fontana Vecchia, dove gli animali andavano ad abbeverarsi e uomini, donne e bambini durante il giorno a dissetarsi o a riempire secchi e barili utili per la casa. E poi si sentivano altri rumori che sembravano venir su dalla notte stessa e dai monti circostanti. Certo non erano tempi tranquilli, quelli. I briganti e i militari del governo si davano la caccia sempre più spietatamente. Nelle cantine e tra i banchi delle chiese, nei campi e nelle taverne del circondario si raccontavano fatti di sangue. Milone come tanti altri suoi paesani aveva creduto a Garibaldi e ai nuovi governanti che qualche anno prima avevano promesso mille cose: la terra, le strade, le case e pure le scuole. Poi tutto era tornato come prima ed erano arrivati i briganti, in fuga da Melfi e da Rionero a incendiare le dimore dei signori e dei proprietari delle terre. E i soldati del governo a inseguirli, arrestarli e fucilarli senza nemmeno processarli. I boschi e le foreste s’erano fatte poco sicure e le strade e i sentieri incutevano paure assurde. Ogni viaggio era un pericolo. Da qualunque tronco d’albero poteva spuntare un fucile o una lama. Di notte, poi… Con questi pensieri nella testa e una confortante fiducia in compare Luigi per cercare di ritrovare suo figlio Totore, Giovanni Milone sollecitò con un colpo di stivale bene affibbiato nel fianco il suo asino ad avviarsi. Lo indirizzò lungo la scorciatoia che scendeva al fiume, poi avrebbe seguito il corso d’acqua fino al Ponte dei Mallardi e a Dio piacendo, giù, giù fino all’incrocio con il torrente Tora, ai piedi della collina sulla quale dominava la città di Potenza. A quel punto si sarebbe fatto giorno pieno e sarebbe stata un’altra cosa. Tutto era iniziato una notte d’agosto di dieci anni prima. Nell’abitazione dei Milone quella notte si faceva fatica a dormire: il caldo era asfissiante e le zanzare, risalite in paese da una putrida colonia di cannucce galleggiante in mezzo al lago  della piana non mostravano nessuna pietà. Salvatore, cinque anni, divideva il letto con gli altri due fratelli più piccoli, Domenico e Nicola. La sorella Carolina, otto anni, dormiva sul saccone infilato nell’incavo di un muro con l’altra sorella Carmela. La ragazzina non riusciva a chiudere occhio nonostante avesse trascorso la giornata ad aiutare la mamma a impastare la farina di granone, a badare ai più piccoli che si rincorrevano nella strada, a prendere l’acqua alla fontana, a schiacciare i pidocchi tirati giù dai capelli suoi e da quelli dei suoi fratelli. Silenziosa, Carolina lasciò il giaciglio e andò a svegliare Salvatore: “Totore! Toto’… Eh…? Staië sëndenn sta band? No… Send… send!!… No.… Carolì… famm dorm… Totore, viè, vien vscinë a la fnestra… chi dì? … mo’ la send?… è bella…eh? So’ viulin e mandola, Toto’… fann na sërnada a quarcuna… È bell la sunada d’ la mandola, Toto’, è bella assai… Pcchè nun t ‘mpar pur tu a sunà la mandola?”. Totore conobbe Antonio Mureno per la prima volta il giorno della festa della Madonna delle Grazie a Torretta, il due luglio. L’uomo, barbuto e capellone, scorticava note da un violino più o meno intonato, a tracolla indossava una mandola e faticava non poco a tenere a distanza da sé, tirando calci e sputando di continuo, la nidiata di monelli che lo disturbavano e lo sbeffeggiavano nei vicoli attorno la chiesa. C’era pure Totore con quella chenca d’insolenti. Ma era l’unico ad avere voglia di ascoltare sia il canto di quell’uomo sia il suono della sua musica. Lo sfortunato Mureno apparteneva a quella genia di musicanti che chiedevano un tozzo di pane o una ciotola di minestra. Suonavano e cantavano strofette popolari apprese nei pellegrinaggi, nelle fiere e nelle feste paesane. Musicanti di strada. Tra questi i più conosciuti dell’epoca erano i Viggianesi che si esibivano con l’arpa e poi c’erano altri di altri paesi: Corleto, Brienza, Picerno, Matera, Latronico, Moliterno, San Mauro Forte e Pignola, patria di bravi costruttori di mandole, mandolini e violini che a Napoli dove si erano trasferiti dall’inizio dell’Ottocento avevano aperto una liuteria di lusso. Qui si erano anche imposti come compositori di una musica più alta e più nobile di quella suonata dai suonatori ambulanti. Erano i Calace, discendenti di un rivoltoso dei moti carbonari del 1821, graziato dal re Borbone, nato in Lucania, a Pignola appunto e capostipite di una lunga storia familiare ricca di successi musicali e di realizzazioni di splendidi esemplari di mandole e di mandolini. Nei giorni che seguirono la festa della Madonna delle Grazie, il piccolo Salvatore trovò il modo di conoscere meglio il Mureno. Un giorno lo seguì mentre si appartava dietro una siepe poco fuori il paese e aspettò che l’uomo facesse i suoi bisogni. Quando il musicante si tirò fuori da quella infrascata gli chiese “‘U’ banom, è difficëlë sunà la mandola?” Mureno lo guardò, lo squadrò dalla testa ai piedi, gli accennò anche un ghigno di approvazione e poi gli rispose: “Vuò pruvà?” Totore lo fece. Imbracciò lo strumento, aspettò che Antonio Mureno glielo sistemasse nel modo giusto e con la mano sinistra strinse le corde della mandola. Con la destra provò a pizzicare le sottili strisce di pelle di vitello, ne venne fuori un suono cupo e strozzato. La prima nota di una lunga musica che Totore da quel momento avrebbe suonato in compagnia di Antonio Mureno, musicante di strada. Quando Mureno decise di partire per il Brasile, Totore era cresciuto abbastanza. Insieme, d’estate e d’inverno, per lunghi periodi avevano girato i paesi della  provincia di Potenza e molte volte si erano spinti anche nel Cilento e in provincia di Avellino, nei posti e nei paesi dove si veneravano santi e madonne miracolose e la gente in pellegrinaggio arrivava da ogni parte del sud. Totore era diventato un bravo accompagnatore musicale di Mureno. Con la mandola arricchiva le filastrocche e gli strambotti che il capo ossessivamente cantava e suonava nei vicoli e nei rioni dei paesi. Aveva lasciato la casa e la famiglia e con il consenso del padre seguiva il Mureno con una certa passione anche perché ogni tanto riusciva a portare a casa qualche spicciolo frutto della pietà cristiana e delle genti paesane. Denaro che serviva assai al resto della famiglia. Poi, però, Mureno decise di cambiare aria e di emigrare come tanti meridionali facevano in quel momento. Per il Brasile, terra lontana, terra mitica e ricca si raccontava nelle cantine e sui gradini delle case. “Laggiù faremo i soldi- disse Mureno a Giovanni Milone che gli affidò il figlio suonatore di mandola a patto che dopo tre anni sarebbe dovuto ritornare a Torretta. La vicenda, purtroppo, non andò così come aveva detto Milone e per tre anni dal Brasile né Mureno né Totore fecero sapere qualcosa di loro e della loro nuova vita. Ecco perché papà Giovanni quel quindici dicembre del milleottocentosessantotto decise di rivolgersi a compare Luigi, guardaporta in divisa alla Prefettura di Potenza. I due compari paesani, timidamente, entrarono nell’ufficio dello scrivano: si sentiva odore di carta consumata e d’inchiostro. C’era poca luce e lo scrivano sembrava incollato alla scrivania come un oggetto o un soprammobile della stessa. Rispose al saluto senza alzare gli occhi dal foglio bianco che gli stava davanti. Impugnava la penna e aveva un paio di baffi ben curati. Indossava un pastrano pesante perché nella stanza il freddo di dicembre si faceva sentire. “Raccontate – disse con voce raffreddata – Voi parlate e io scrivo.” Per comodità del lettore e per una più facile lettura del caso si riporta, qui, integralmente, la domanda indirizzata da Giovanni Milone al Prefetto di Potenza, protocollata alla categoria 7, b.11, fasc. 12, conservata nell’Archivio di Stato del capoluogo lucano.
“Egregio Sig. Prefetto
A un certo Antonio Mureno del Comune di Torretta fu affidato da me sottoscritto Giovanni Milone il giovinetto Salvatore Milone, mio figlio, per condurlo all’estero ad esercitare il mestiere di suonatore ambulante, col patto che, oltre al salario convenuto, il Mureno avrebbe provveduto alle spese del suo rimpatrio se, scorso il termine del contratto, egli non avesse voluto in sua compagnia rimpatriare. Partitosi il Mureno nell’aprile 1865 e terminato il tempo pel quale erasi obbligato a tenerlo, non solo non curava il pagamento totale del salario dovuto e di provvedere all’imbarco del giovane Salvatore Milone, ma lo abbandonava e io, Giovanni Milone, padre del giovane, da più di due anni non ho saputo niente di mio figlio. Pertanto prego S.E. perché si vedesse per mezzo del regio Console in Rio Janeiro di obbligare il Mureno a provvedere al rimpatrio di mio figlio Salvatore Milone che a Torretta tutti chiamano Totore suonatore di mandola. Ossequi e ringraziamenti.
(firma con un segno di croce).
Potenza 16 dicembre 1868.”
Il regio Console di Rio de Janeiro, su ordinanza del Ministro degli Affari Esteri riuscì a trovare sia il Mureno che Totore. Il primo disse di non avere un soldo né di essere in grado di soddisfare altre richieste. Il secondo, colto da cecità era amorevolmente curato da un compatriota in quella città e non aveva nessuna intenzione di ritornare in Italia, in Basilicata, a Torretta. Totore, negli anni seguenti, cieco del tutto ma sempre appassionato della mandola continuò a suonare nei locali e nelle strade di quella città brasiliana. Incontrò e fece amicizia con i suonatori di chitarra e da loro apprese i segreti di quel nuovo strumento e le musiche di quel popolo. Visse a lungo e ancora nel nuovo secolo ai lucani che rimpatriavano da Rio se si chiedeva loro racconti e vicende brasiliane per prima cosa questi raccontavano di un suonatore di mandola cieco che suonava sulle spiagge di quella zona e che diceva di essere di un paese della provincia di Potenza senza però mai dirne il nome. “Un musicante di strada – diceva – appartiene al paese nel quale arriva e nel quale suona. Fino a quando non decide di andare a suonare
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