Sono stata invitata ad un matrimonio. E’ la prima volta che mi accade, negli Stati Uniti, e sono molto curiosa, anche se a furia di guardare telefilm e serie varie pare di sapere gia’ tutto. E in effetti, la prima cosa che viene in mente pensando ad un matrimonio americano, ovvero la spropositata presenza di damigelle per la sposa e testimoni per lo sposo, c’e’. Sono sei, in questa occasione. Sono molto ammirata – ci sara’ una fiorente industria all’uopo, suppongo – dal fatto che gli abiti delle damigelle, pur avendo esattamente tutte lo stesso colore, sono di modelli molto simili ma non uguali, per consentire a ciascuna di adattare l’abito al proprio fisico: alte, basse, magre, in carne, piu’ castigate o meno, seno piccolo o abbondante. Da lontano, pero’, sembrano tutte uguali, e il colpo d’occhio e’ spettacolare e molto gradevole.
Gli sposi sono cattolici, la chiesa e’ enorme e simil gotica, anche se e’ stata costruita a fine ‘800. Una Notre Dame in cemento, con belle vetrate colorate, e freschissima, un sospiro di sollievo provenendo dai 37 gradi con l’80% di umidita’ dell’esterno. La musica di ingresso della sposa (e delle damigelle, of course, entrate una per una) non e’ la ritrita marcia nuziale di Mendhellson, ma un meno scontato Canone in D Major di Pachelbel, che mi rilassa fino quasi al sonno. Il rito e’ identico a quello italiano, riesco perfino a recitare il Padre Nostro al momento giusto, e penso che anche se in un’altra lingua, le preghiere hanno lo stesso ritmo in tutto il mondo. C’e’ una bravissima cantante con una splendida voce, che sale nella navata morbida come una piuma.
Proibito fare foto, e nessuno le fa, tranne la fotografa ufficiale. L’invitata italiana, che aveva pensato “ma figurati se davvero nessuno fa foto” e aveva sfoderato lo smartphone, viene guardata stortissima da mezza chiesa e fischiettando rossa come un pomodoro ripone lo strumento del demonio nella borsetta, cercando di non farsi notare. La cerimonia, in generale, mi e’ parsa piu’ sobria, semplice, priva degli infiniti orpelli barocchi dei matrimoni italiani. La predica e’ brevissima, tesa a far sorridere l’uditorio, e parla di gioia e comunione di intenti, non di malattia e poverta’. La sposa – come moltissime spose in ogni angolo del mondo – si commuove al momento della recita delle intenzioni, facendoci commuovere tutti. Al termine della cerimonia, niente riso: gli sposi escono dalla chiesa prima degli invitati, in modo da poterli aspettare fuori e salutarli uno per uno, con una gioia che mi e’ parsa piu’ autentica che altrove.
Un ricevimento di nozze americane e’ cosi’ composto:
- 5% preghiera. Il prete ci ha seguito fino al salone delle feste, e ci fa pregare tutti, seduti ai tavoli, a capo chino, prima dell’inizio;
- 15% cibo. La cena di nozze e’ velocissima e comprende pochi aperitivi volanti (sia messo a verbale che ho assaggiato il bacon caramellato), una insalata con formaggio di capra, un unico piatto di stufati di carni miste con patate e verdure, e un timido lontano buffet di cheesecakes e caffe’;
- 35% musica e ballo. C’e’ una magnifica band dal vivo, con due voci spettacolari, che snocciolano tutto il repertorio pop e soul americano, a partire dagli anni ’70 – si’, anche Aretha Franklin ed Etta James. TUTTI gli invitati ballano, non conta l’eta’, ne’ la forma fisica, si balla e basta, perche’ e’ festa e si deve festeggiare. Non ci sono tacchi alti, ne’ abiti lussuosissimi, c’e’ solo una attenta cura di se’ e del sentirsi belli comunque, a qualunque eta’ e con qualunque taglia. C’e’ una allegria serena, autentica, comoda, che permette un autentico divertimento. Il rito prevede che le danze vengano aperte dagli sposi, con un romantico lento occhi negli occhi; poi la sposa balla col papa’, commuovendosi un po’, poi lo sposo balla con la mamma. Poi si balla tutti. I piu’ scatenati, ovviamente, sono gli ultrasettantenni;
- 45% alcool. Sull’invito ci sono le magiche parole “OPEN BAR”: questo vuol dire che ciascun invitato puo’ farsi servire da bere, piu’ e piu’ volte, senza limiti, e si serve di tutto, dalla birra al vino allo champagne (solo dolce, purtroppo), ai superalcolici, ai cocktail. Il rischio e’ che andando avanti la serata, la affettuosa educata allegra compagine di 150 invitati si trasformi in un club di sbracati ondeggianti con l’occhio lucido e disposti alla rissa. Ma, per fortuna, tranne un aumentato tasso di allegria, un aumento di due toni del volume dei colloqui, e una maggiore sfrenata voglia di danza, non accade altro.
Torniamo a casa con Uber, come siamo venuti: nessuna isteria collettiva, qui, sulla sharing economy dei trasporti.
Tanti auguri, Lindsay e Noah, e grazie per avermi invitata. Il difficile – o il bello – iniziano adesso.